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Santo Guevara dal sigaro immacolato
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Santo Guevara dal sigaro immacolato
Due sigari hanno fatto la storia della (e nella) fotografia: uno perché c’era, l’altro perché non c’era. Il sigaro mancante è quello che il fotografo canadese Yousuf Karsh strappò dalle labbra di Winston Churchill, nel ‘41, immediatamente prima di scattargli la foto che avrebbe reso celebre nel mondo la sua espressione da mastino che non molla, da combattente di «sangue sudore lacrime», che invece era solo l’espressione infuriata di un fumatore contrariato.
Il sigaro presente è l’Avana che Ernesto Che Guevara tiene issato all’angolo destro della bocca come una bandiera, come un cannone puntato (ok: anche un simbolo fallico, se proprio volete) nel ritratto che gli prese René Burri nel gennaio 1963, e che divenne una delle immagini più famose del «comandante».
D’accordo, d’accordo: non la più famosa. Chi pensa al Che con gli occhi del ricordo, vede un’altra immagine, vede l’icona probabilmente più famosa di tutto il Novecento, vede il volto stilizzato di un Cristo barbuto col basco, la stella rossa e lo sguardo rivolto lontano, all’orizzonte della Rivoluzione.
Anche quell’immagine ormai resa astratta dalla sua infinita moltiplicazione un tempo fu una fotografia: l’aveva scattata tre anni prima di Burri un bravo reporter cubano, Alberto Korda, mentre il Che saliva sul palco affollato di una manifestazione di piazza; ma diciamolo, non era poi quella gran foto, tant’è che Granma, il rotocalco della Cuba barbuda, non la volle nemmeno pubblicare.
Il vero inventore dell’icona del Che, ormai lo sanno tutti, fu Giangiacomo Feltrinelli che di ritorno dalla Bolivia, dove Guevara stava perdendo sanguinosamente la sua ultima battaglia, adocchiò il volto del futuro martire confuso nella foto di gruppo, se la fece regalare dall’autore, la scontornò, la posterizzò ad alto contrasto e la stampò sulla copertina del Diario del Che, lanciandola nell’Olimpo delle immagini epocali. Ma a quel punto, lo spirito di Korda non s’adombri, non era più una foto, era un marchio, un emblema, uno di quei segni grafici, insomma, che sono solo la trasposizione visuale di una preghiera o di uno slogan.
Anche l’immagine del Che di René Burri (perché è di questo grande, schivo fotografo svizzero che vogliamo parlare finalmente) è andata incontro a una fortuna esplosiva, straordinaria: si vende ancora a milioni di esemplari su poster, cartoline, magliette, ma chi la compra quasi mai ne conosce l’autore.Lo spossessamento, del resto, è l’indizio più efficace del processo di iconizzazione.
Eppure non ha mai smesso di essere una fotografia. Ha resistito alla torsione simbolica, alla compressione ideologica che ha trasformato in arazzi sacri quasi tutte le immagini del Che vivente e morente (i drammatici scatti di Freddy Alborta al cadavere del comandante esibito dai militari boliviani sono stati paragonati, non a torto, alla Lezione di anatomia di Rembrandt e al Cristo morto del Mantegna).
È rimasta una fotografia perché lo era, fin dall’inizio. Come tutte le altre degli otto rullini che Burri impressionò in quella mattina di grazia di gennaio del 1963, in un ufficio del Ministero cubano dell’Industria cubano dove un giovane dalla chioma scomposta, in tuta verde militare e anfibi, s’aggirava quasi incredulo di essere proprio lui, il ministro.
L’allora trentenne Burri era stato mandato lì dall’agenzia Magnum per il corredo fotografico a un’intervista che Laura Bergquist di Look era riuscita ad ottenere nelle settimane del più acuto conflitto tra Usa e Cuba. «Due ore di grande tensione» tra intervistatrice e intervistato, ma non per Burri che, ormai inavvertito, danzava attorno al duello cogliendo el comandante sempre fuori posa, costantemente in movimento, assolutamente sciolto dalla rigidità del monumento che sarebbe poi diventato.
Guardatele queste immagini, sorelle minori di quella più famosa, guardate il Che non ancora imbalsamato in un Hasta siempre!, come fatica a stare nella parte, come si lascia sfuggire un’espressione da bimbo curioso che sbircia nell’ufficio di papà, o viceversa come guasconeggia marciando davanti alla carta geografica della sua Cuba, que linda es Cuba, per poi stropicciarsi gli occhi affaticato dalla battaglia dialettica con un’interlocutrice che sa fare il suo mestiere.
Una foto troppo famosa può rovinare un fotografo. Solo i grandi si salvano dal successo delle loro immagini. Burri superò la prova. Mente il suo «Santo Guevara dal sigaro» faceva (più volte) il giro del mondo, René riuscì a sfuggire alla morsa del cliché, non restò mai il «fotografo del Che», non volle neppure riposare nel ruolo del ritrattista dei grandi (come invece successe a Karsh): appassionato d’architettura, collaborò con Le Corbusier, si cimentò con il film documentario, riprese a fotografare guerre e paci, tornò anche a Cuba, ma non a caccia di altre icone (rinunciò a ritrarre Castro che passava casualmente sotto un gigantesco segnale di «Uscita», così come s’era rifiutato anni prima di rubare gli occhi dell’anziana Greta Garbo mentre per un istante si toglieva i celebri occhiali neri: «Troppo ovvia»).
Il Che, intanto, aveva lasciato poltrone e ministeri per scalare il suo Golgota boliviano, ascendere al Cielo degli eroi di una rivoluzione tanto emozionante quanto mitica e astorica, reincarnandosi infine in quella sua immagine seriale che, ha scritto lo psicologo della fotografia Serge Tisseron, ha finito per produrre più passioni della sua stessa vita.
Quanto a Burri, non si crucciò poi tanto di aver contribuito alla santificazione di un combattente. Capì che le immagini hanno più forza dei loro autori quando, anni dopo, tentò di rifotografare il suo stesso ritratto del Che trovato appeso nell’androne di una banca dell’Avana, e fu prontamente arrestato.
http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/07/19/santo-guevara-dal-sigaro-immacolato/
Il sigaro presente è l’Avana che Ernesto Che Guevara tiene issato all’angolo destro della bocca come una bandiera, come un cannone puntato (ok: anche un simbolo fallico, se proprio volete) nel ritratto che gli prese René Burri nel gennaio 1963, e che divenne una delle immagini più famose del «comandante».
D’accordo, d’accordo: non la più famosa. Chi pensa al Che con gli occhi del ricordo, vede un’altra immagine, vede l’icona probabilmente più famosa di tutto il Novecento, vede il volto stilizzato di un Cristo barbuto col basco, la stella rossa e lo sguardo rivolto lontano, all’orizzonte della Rivoluzione.
Anche quell’immagine ormai resa astratta dalla sua infinita moltiplicazione un tempo fu una fotografia: l’aveva scattata tre anni prima di Burri un bravo reporter cubano, Alberto Korda, mentre il Che saliva sul palco affollato di una manifestazione di piazza; ma diciamolo, non era poi quella gran foto, tant’è che Granma, il rotocalco della Cuba barbuda, non la volle nemmeno pubblicare.
Il vero inventore dell’icona del Che, ormai lo sanno tutti, fu Giangiacomo Feltrinelli che di ritorno dalla Bolivia, dove Guevara stava perdendo sanguinosamente la sua ultima battaglia, adocchiò il volto del futuro martire confuso nella foto di gruppo, se la fece regalare dall’autore, la scontornò, la posterizzò ad alto contrasto e la stampò sulla copertina del Diario del Che, lanciandola nell’Olimpo delle immagini epocali. Ma a quel punto, lo spirito di Korda non s’adombri, non era più una foto, era un marchio, un emblema, uno di quei segni grafici, insomma, che sono solo la trasposizione visuale di una preghiera o di uno slogan.
Anche l’immagine del Che di René Burri (perché è di questo grande, schivo fotografo svizzero che vogliamo parlare finalmente) è andata incontro a una fortuna esplosiva, straordinaria: si vende ancora a milioni di esemplari su poster, cartoline, magliette, ma chi la compra quasi mai ne conosce l’autore.Lo spossessamento, del resto, è l’indizio più efficace del processo di iconizzazione.
Eppure non ha mai smesso di essere una fotografia. Ha resistito alla torsione simbolica, alla compressione ideologica che ha trasformato in arazzi sacri quasi tutte le immagini del Che vivente e morente (i drammatici scatti di Freddy Alborta al cadavere del comandante esibito dai militari boliviani sono stati paragonati, non a torto, alla Lezione di anatomia di Rembrandt e al Cristo morto del Mantegna).
È rimasta una fotografia perché lo era, fin dall’inizio. Come tutte le altre degli otto rullini che Burri impressionò in quella mattina di grazia di gennaio del 1963, in un ufficio del Ministero cubano dell’Industria cubano dove un giovane dalla chioma scomposta, in tuta verde militare e anfibi, s’aggirava quasi incredulo di essere proprio lui, il ministro.
L’allora trentenne Burri era stato mandato lì dall’agenzia Magnum per il corredo fotografico a un’intervista che Laura Bergquist di Look era riuscita ad ottenere nelle settimane del più acuto conflitto tra Usa e Cuba. «Due ore di grande tensione» tra intervistatrice e intervistato, ma non per Burri che, ormai inavvertito, danzava attorno al duello cogliendo el comandante sempre fuori posa, costantemente in movimento, assolutamente sciolto dalla rigidità del monumento che sarebbe poi diventato.
Guardatele queste immagini, sorelle minori di quella più famosa, guardate il Che non ancora imbalsamato in un Hasta siempre!, come fatica a stare nella parte, come si lascia sfuggire un’espressione da bimbo curioso che sbircia nell’ufficio di papà, o viceversa come guasconeggia marciando davanti alla carta geografica della sua Cuba, que linda es Cuba, per poi stropicciarsi gli occhi affaticato dalla battaglia dialettica con un’interlocutrice che sa fare il suo mestiere.
Una foto troppo famosa può rovinare un fotografo. Solo i grandi si salvano dal successo delle loro immagini. Burri superò la prova. Mente il suo «Santo Guevara dal sigaro» faceva (più volte) il giro del mondo, René riuscì a sfuggire alla morsa del cliché, non restò mai il «fotografo del Che», non volle neppure riposare nel ruolo del ritrattista dei grandi (come invece successe a Karsh): appassionato d’architettura, collaborò con Le Corbusier, si cimentò con il film documentario, riprese a fotografare guerre e paci, tornò anche a Cuba, ma non a caccia di altre icone (rinunciò a ritrarre Castro che passava casualmente sotto un gigantesco segnale di «Uscita», così come s’era rifiutato anni prima di rubare gli occhi dell’anziana Greta Garbo mentre per un istante si toglieva i celebri occhiali neri: «Troppo ovvia»).
Il Che, intanto, aveva lasciato poltrone e ministeri per scalare il suo Golgota boliviano, ascendere al Cielo degli eroi di una rivoluzione tanto emozionante quanto mitica e astorica, reincarnandosi infine in quella sua immagine seriale che, ha scritto lo psicologo della fotografia Serge Tisseron, ha finito per produrre più passioni della sua stessa vita.
Quanto a Burri, non si crucciò poi tanto di aver contribuito alla santificazione di un combattente. Capì che le immagini hanno più forza dei loro autori quando, anni dopo, tentò di rifotografare il suo stesso ritratto del Che trovato appeso nell’androne di una banca dell’Avana, e fu prontamente arrestato.
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