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Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
Asere Que Bola - A Cuba, esa loca y maravillosa isla :: Provincie :: L'Avana e province cubane :: Granma e Bayamo
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Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
Desde la Habana con una camioneta
1° giorno (sabato 20 luglio 2013):
Havana – Bayamo
http://andreavirga.blogspot.it/2013_11_01_archive.html
Partiamo all’alba del 20 luglio, raggiungendo in guagua (autobus), dal Vedado, la Stazione Ferroviaria,
spostandoci poi verso La Coubre.
Questo tratto di strada, tra la stazione e il porto, prende il nome dal monumento formato da parte dei relitti della nave francese “Coubre”, fatta saltare nel 1960 nel porto dell’Avana, in un atto terroristico statunitense. Fu in occasione della manifestazione di protesta immediatamente successiva che il fotografo Alberto Korda scattò l’immortale foto del “Che”, che campeggia sulle magliette di tutto il mondo.
Da questo luogo partono i camiones che suppliscono ai trasporti pubblici interurbani, fin da quando, nel Periodo Especial, la scarsità di petrolio aveva reso preziosi i trasporti e l’autostop era diventato un obbligo per i mezzi pubblici. Ora, privati cittadini acquistano dallo Stato la licenza da autisti, e quindi s’improvvisano tassisti, chauffers o addirittura conducenti. In questo caso, lavorano insieme uno o due autisti e una sorta di bigliettaio, incaricato di riscuotere la tariffa e far salire i passeggeri. Quest’ultima figura è nota come machacante, dal verbo “machacar”, che significa letteralmente “pigiare nel mortaio”. Questo gustoso soprannome deriva dal fatto che in principio si trattava di semplici automezzi, il cui cassone era sommariamente adattato al trasporto di passeggeri, la cui comodità è facile immaginare.
Oggi, invece, specie per tratte lunghe come quella che intendiamo percorre, i camiones sono attrezzati con sedili imbottiti, per cui, al di là della mancanza di finestrini, non sono troppo differenti da una corriera. Soprattutto, il prezzo per coprire i 740 km tra l’Avana e Bayamo ammonta a 10 CUC a testa, circa un decimo rispetto ai lussuosi autobus turistici Viazul, noti anche per un uso eccessivo dell’aria condizionata, e i quali non riescono comunque ad assicurare un tempo di percorrenza minore. In poco tempo, l’automezzo si riempie di passeggeri, carichi di valigie. Molti di loro sono palestinos, ossia abitanti delle province orientali, immigrati all’Avana, che tornano a trovare la famiglia in occasione delle ferie del 26 Luglio, portando loro regali e beni di consumo dalla Capitale. Nonostante i cubani benestanti si guardino ben bene dal servirsi di questi mezzi di trasporto, i nostri compagni di viaggio non vivono certo in miseria, come dimostrato dalle unghie femminili curatissime, dalle forme abbondanti e dai capi firmati e dalle cuffiette mp3 che fanno capolino qua e là.
Alle 8.40 il veicolo si è ormai riempito, al punto che alcuni debbono stare in piedi, e possiamo partire. Molti scendono o salgono lungo le fermate intermedie, tra cui una graduata delle Fuerzas Armadas Revolucionarias, che allatta la figlioletta. Imbocchiamo subito l’Autopista Nacional costruita negli anni ’80 dai sovietici, la cosa più simile a un’autostrada che Cuba abbia, nonostante le due ampie corsie per senso di marcia siano percorse anche da motorini, carretti a trazione animale, biciclette e pedoni. Le prime cinque ore di viaggio procedono speditamente, finché a Sancti Spíritus, ossia là dove erano arrivati i lavori nel 1991, la strada finisce, lasciando il posto alla Carretera Central, principale arteria stradale dell’isola. Le sue condizioni spiegano egregiamente la lentezza nei trasporti interni. Ci fermiamo un’ora a Majagua per il pranzo, in una stazione di servizio che è uno spiazzo, dotato di servizi igienici e di bancarelle che vendono cibo da asporto, generalmente congrí (riso e fagioli) con carne di maiale o pollo.
L’autista, ringalluzzito dalla sosta, non sembra darsi pena del fatto che ormai la strada è larga la metà, e cerca di accelerare i tempi. La sua hybris trova una rapida punizione, quando per evitare di tamponare un altro automezzo è costretto a finire in un fosso, accolto da un coro d’irripetibili insulti da parte dei passeggeri. Il fosso è poco profondo e quasi asciutto, per cui nessuno si è fatto male, anche se a certe grasse signore tocca comunque d’infangarsi un poco. Fortuna vuole che passi di lì un trattore agricolo, che traina con facilità il camión di nuovo sulla carreggiata. Sono così frustrate le mie speranze di ridurre i tempi. La serata è comunque rallegrata da un intermezzo comico, quando una bella passeggera inizia a litigare col machacante riguardo al prezzo, più alto di 2 CUC rispetto al solito. I due giovani negri ingaggiano quindi una contesa verbale di quasi due ore, a suon d’ingiurie e frecciate, senza mai ripetersi, tra l’ilarità degli astanti. A fenomeni simili si può probabilmente ricondurre le origini culturali del rap. Del resto, il machacante, da bravo lavoratore autonomo, ci tiene a massimizzare i profitti ed abbattere le spese, tanto da evitare i distributori e rifornire il serbatoio con taniche di carburante plausibilmente acquistato sottocosto al mercato nero.
Arriviamo alla stazione degli autobus di Bayamo per le 21.30 di sera. C’è chi scende gridando “Santiago!”. Con questo grido di guerra, i loro antenati avevano messo a ferro e a fuoco il continente; ora designa unicamente la ricerca di un mezzo per proseguire verso l’omonima città. L’orario non rappresenta un problema per l’albergo, dove subito ci dirigiamo, in modo da posare i nostri essenziali bagagli. Tuttavia, il ritardo m’impedisce di cenare al mio ristorante preferito, “La Sevillana”, dove si può gustare un’ottima cucina spagnola in un ambiente elegante, pagando in moneda nacional, ossia spendendo l’equivalente di pochi euro a testa. D’altronde, Bayamo, pur essendo capoluogo di provincia, non è l’Avana, e alle 22.30 i ristoratori sono quasi tutto chiusi, ad onta del sabato sera. Ci soccorre quindi una tavola calda che serve hamburguesas, anche se, essendo statale, le porzioni sono, ahimé, proporzionate ai prezzi. Pare che numerosi Europei, anche tra quelli che vivono e lavorano all’Avana, sarebbero colti da irrefrenabili problemi intestinali qualora consumassero le stesse vivande degli autoctoni: li compatisco.
Eravamo già stati a Bayamo, nel 2009, nel corso del mio primo viaggio, e mi ricordavo bene il grazioso centro storico della città. Il corso principale, adornato nello stile di Wilfredo Lam, costituisce una piacevole passeggiata. Su di esso si affacciano i principali locali e si svolge la vita notturna cittadina. Il corso si snoda dal Cuartel “Carlos Manuel de Céspedes” – una delle due caserme prese d’assalto dai rivoluzionari il 26 luglio 1953, ora sede del Museo “Nico López” – fino al parco centrale – dove sorgono il museo e il monumento dedicati a Perucho Figueredo, il patriota che nel 1836 compose l’inno nazionale cubano. In una piazzetta adiacente, sorge la chiesa, sul cui sagrato fu per la prima volta intonato l’inno, noto quindi come “La Bayamesa”. Anche l’albergo, l’Hotel Sierra Maestra, è lo stesso della scorsa volta, e si trova a sud del centro, per cui vi facciamo ritorno, desiderosi di riposarci, prima di raggiungere la Sierra.
1° giorno (sabato 20 luglio 2013):
Havana – Bayamo
http://andreavirga.blogspot.it/2013_11_01_archive.html
Partiamo all’alba del 20 luglio, raggiungendo in guagua (autobus), dal Vedado, la Stazione Ferroviaria,
spostandoci poi verso La Coubre.
Questo tratto di strada, tra la stazione e il porto, prende il nome dal monumento formato da parte dei relitti della nave francese “Coubre”, fatta saltare nel 1960 nel porto dell’Avana, in un atto terroristico statunitense. Fu in occasione della manifestazione di protesta immediatamente successiva che il fotografo Alberto Korda scattò l’immortale foto del “Che”, che campeggia sulle magliette di tutto il mondo.
Da questo luogo partono i camiones che suppliscono ai trasporti pubblici interurbani, fin da quando, nel Periodo Especial, la scarsità di petrolio aveva reso preziosi i trasporti e l’autostop era diventato un obbligo per i mezzi pubblici. Ora, privati cittadini acquistano dallo Stato la licenza da autisti, e quindi s’improvvisano tassisti, chauffers o addirittura conducenti. In questo caso, lavorano insieme uno o due autisti e una sorta di bigliettaio, incaricato di riscuotere la tariffa e far salire i passeggeri. Quest’ultima figura è nota come machacante, dal verbo “machacar”, che significa letteralmente “pigiare nel mortaio”. Questo gustoso soprannome deriva dal fatto che in principio si trattava di semplici automezzi, il cui cassone era sommariamente adattato al trasporto di passeggeri, la cui comodità è facile immaginare.
Oggi, invece, specie per tratte lunghe come quella che intendiamo percorre, i camiones sono attrezzati con sedili imbottiti, per cui, al di là della mancanza di finestrini, non sono troppo differenti da una corriera. Soprattutto, il prezzo per coprire i 740 km tra l’Avana e Bayamo ammonta a 10 CUC a testa, circa un decimo rispetto ai lussuosi autobus turistici Viazul, noti anche per un uso eccessivo dell’aria condizionata, e i quali non riescono comunque ad assicurare un tempo di percorrenza minore. In poco tempo, l’automezzo si riempie di passeggeri, carichi di valigie. Molti di loro sono palestinos, ossia abitanti delle province orientali, immigrati all’Avana, che tornano a trovare la famiglia in occasione delle ferie del 26 Luglio, portando loro regali e beni di consumo dalla Capitale. Nonostante i cubani benestanti si guardino ben bene dal servirsi di questi mezzi di trasporto, i nostri compagni di viaggio non vivono certo in miseria, come dimostrato dalle unghie femminili curatissime, dalle forme abbondanti e dai capi firmati e dalle cuffiette mp3 che fanno capolino qua e là.
Alle 8.40 il veicolo si è ormai riempito, al punto che alcuni debbono stare in piedi, e possiamo partire. Molti scendono o salgono lungo le fermate intermedie, tra cui una graduata delle Fuerzas Armadas Revolucionarias, che allatta la figlioletta. Imbocchiamo subito l’Autopista Nacional costruita negli anni ’80 dai sovietici, la cosa più simile a un’autostrada che Cuba abbia, nonostante le due ampie corsie per senso di marcia siano percorse anche da motorini, carretti a trazione animale, biciclette e pedoni. Le prime cinque ore di viaggio procedono speditamente, finché a Sancti Spíritus, ossia là dove erano arrivati i lavori nel 1991, la strada finisce, lasciando il posto alla Carretera Central, principale arteria stradale dell’isola. Le sue condizioni spiegano egregiamente la lentezza nei trasporti interni. Ci fermiamo un’ora a Majagua per il pranzo, in una stazione di servizio che è uno spiazzo, dotato di servizi igienici e di bancarelle che vendono cibo da asporto, generalmente congrí (riso e fagioli) con carne di maiale o pollo.
L’autista, ringalluzzito dalla sosta, non sembra darsi pena del fatto che ormai la strada è larga la metà, e cerca di accelerare i tempi. La sua hybris trova una rapida punizione, quando per evitare di tamponare un altro automezzo è costretto a finire in un fosso, accolto da un coro d’irripetibili insulti da parte dei passeggeri. Il fosso è poco profondo e quasi asciutto, per cui nessuno si è fatto male, anche se a certe grasse signore tocca comunque d’infangarsi un poco. Fortuna vuole che passi di lì un trattore agricolo, che traina con facilità il camión di nuovo sulla carreggiata. Sono così frustrate le mie speranze di ridurre i tempi. La serata è comunque rallegrata da un intermezzo comico, quando una bella passeggera inizia a litigare col machacante riguardo al prezzo, più alto di 2 CUC rispetto al solito. I due giovani negri ingaggiano quindi una contesa verbale di quasi due ore, a suon d’ingiurie e frecciate, senza mai ripetersi, tra l’ilarità degli astanti. A fenomeni simili si può probabilmente ricondurre le origini culturali del rap. Del resto, il machacante, da bravo lavoratore autonomo, ci tiene a massimizzare i profitti ed abbattere le spese, tanto da evitare i distributori e rifornire il serbatoio con taniche di carburante plausibilmente acquistato sottocosto al mercato nero.
Arriviamo alla stazione degli autobus di Bayamo per le 21.30 di sera. C’è chi scende gridando “Santiago!”. Con questo grido di guerra, i loro antenati avevano messo a ferro e a fuoco il continente; ora designa unicamente la ricerca di un mezzo per proseguire verso l’omonima città. L’orario non rappresenta un problema per l’albergo, dove subito ci dirigiamo, in modo da posare i nostri essenziali bagagli. Tuttavia, il ritardo m’impedisce di cenare al mio ristorante preferito, “La Sevillana”, dove si può gustare un’ottima cucina spagnola in un ambiente elegante, pagando in moneda nacional, ossia spendendo l’equivalente di pochi euro a testa. D’altronde, Bayamo, pur essendo capoluogo di provincia, non è l’Avana, e alle 22.30 i ristoratori sono quasi tutto chiusi, ad onta del sabato sera. Ci soccorre quindi una tavola calda che serve hamburguesas, anche se, essendo statale, le porzioni sono, ahimé, proporzionate ai prezzi. Pare che numerosi Europei, anche tra quelli che vivono e lavorano all’Avana, sarebbero colti da irrefrenabili problemi intestinali qualora consumassero le stesse vivande degli autoctoni: li compatisco.
Eravamo già stati a Bayamo, nel 2009, nel corso del mio primo viaggio, e mi ricordavo bene il grazioso centro storico della città. Il corso principale, adornato nello stile di Wilfredo Lam, costituisce una piacevole passeggiata. Su di esso si affacciano i principali locali e si svolge la vita notturna cittadina. Il corso si snoda dal Cuartel “Carlos Manuel de Céspedes” – una delle due caserme prese d’assalto dai rivoluzionari il 26 luglio 1953, ora sede del Museo “Nico López” – fino al parco centrale – dove sorgono il museo e il monumento dedicati a Perucho Figueredo, il patriota che nel 1836 compose l’inno nazionale cubano. In una piazzetta adiacente, sorge la chiesa, sul cui sagrato fu per la prima volta intonato l’inno, noto quindi come “La Bayamesa”. Anche l’albergo, l’Hotel Sierra Maestra, è lo stesso della scorsa volta, e si trova a sud del centro, per cui vi facciamo ritorno, desiderosi di riposarci, prima di raggiungere la Sierra.
Ultima modifica di mosquito il Gio 24 Apr 2014 - 3:23 - modificato 3 volte.
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Re: Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
2° giorno (domenica 21 luglio): Bayamo – Villa Santo Domingo
Decidiamo di prendercela comoda, approfittando di quest’oasi di comodità. Nonostante sia formalmente un 2-stelle e il prezzo sia contenuto (44 CUC a notte per una doppia), quanto ad agi, spaziosità e servizi, potrebbe valerne benissimo 3 o 4. Dopo un’abbondante colazione continentale a buffet, zaino in spalla, ci dedichiamo alla ricerca di un mezzo per raggiungere il villaggio di Villa Santo Domingo, nel cuore della Sierra Maestra. Quattro anni prima, vi eravamo andati in tassì. Certo, se consideriamo che, tra andata e ritorno, si trattava di circa 160 km di strada, non di rado molto dissestata, e che il tassista ci aveva attesi per le ore necessarie all’escursione, i 70 CUC pagati non costituivano poi un prezzo esagerato, ma questa volta speravamo in un’alternativa più economica.
Poiché avevamo pensato al treno, ci dirigiamo in bici-taxi verso la stazione ferroviaria, per scoprire però che la maggior parte dei pochi treni previsti sono stati cancellati. I trasporti ferroviari cubani sono a buon mercato, ma i treni sono antiquati, le corse rare e gli orari instabili. Per rendere l’idea, si può dire che stanno ai Regionali di Trenitalia come questi stanno agli Shinkansen giapponesi. È domenica e la città è affollata di famiglie in festa, che affollano le giostre e i baracchini dei luna-park. L’ufficio di cambiavalute è chiuso, ma si riesce a cambiare in strada, con una commissione accettabile (1 € per 1,20 CUC, anziché per 1,25). In generale, ci sono molte meno automobili che all’Avana, ma carretti, carrozzelle e bici-taxi, tutti posseduti e gestiti da privati, ottemperano ai trasporti urbani. Perciò, torniamo sui nostri passi, alla stazione degli autobus, dove troviamo un camión diretto verso Manzanillo.
Il tragitto fino a Yara (45 km) ci costa 11 MN a testa, ma il trasporto locale è meno comodo rispetto a quello a lunga distanza. Nel cassone trovano posto due panche per lato, rivolte verso l’interno, e una quinta fila al centro, in piedi: dopotutto, i machacantes vogliono rientrare dei costi. Ci sarebbe l’alternativa delle corriere provinciali della Astro, ma non sono accessibili ai turisti. Dopo un’ora abbondante arriviamo in paese: case basse assiepate intorno a due stradoni che s’incrociano perpendicolarmente. Il calore pomeridiano contribuisce all’atmosfera spaghetti-western. Essendo giorno festivo, troviamo comunque di che ristorarci, tra le bancarelle dei particulares (ossia privati) che vendono gelati, refrescos (bibite), panini, pizzette, ecc., e la cafetería statale dell’autostazione, scarna ma essenziale: un bancone e un refrigeratore. Nonostante l’industria e l’agricoltura cubane lascino a desiderare, quantomeno la produzione di rum resta eccellente, e quella di birra tutto sommato rispettabile.
Il paese resta famoso per essere il luogo natale dell’eroe delle guerre d’indipendenza Carlos Manuel de Céspedes, un rispettabile proprietario terriero che il 10 ottobre 1868 armò gli uomini della sua casa (famigliari, dipendenti e schiavi) e lanciò il famoso Grito de Yara, dando inizio all’insurrezione contro il dominio coloniale spagnolo. Da Yara, troviamo quindi un carro particular, ossia un’auto privata, che fa la ruta (tratta) da e per Bartolomé Masó. Ce ne sono anche all’Avana, di questi tassì collettivi con un percorso programmato, che costituiscono la via di mezzo tra gli autobus e i tassì individuali. Come nella Capitale, anche questo costa 10 MN a persona. Attraversiamo ormai l’aperta campagna, costellata di casette di legno a un solo piano, circondate dai campi e dai pascoli: vacche, pecore, maiali, qualche cavallo. Il caldo è afoso e la pianura verdeggiante è interrotta solo qua e là da alberi isolati. È con grande emozione che vedo levarsi innanzi a noi la verde mole della Sierra Maestra.
Nel centro abitato di Bartolomé Masó, che prende il nome di un generale delle guerre d’indipendenza (l’ultima, quella del 1895-1898), finiscono la ferrovia e i mezzi pubblici. Per andare avanti, come dicono i Cubani, hay que inventar, bisogna inventarsi qualcosa. Dopo esserci rinfrancati con un batido de fruta alla guaiava, chiediamo indicazioni agli indigeni. Ne emerge che dobbiamo raggiungere una collinetta poco fuori dal paese, dove fanno tappa i taxi e gli autobus turistici, e trattare un passaggio per Villa Santo Domingo. I cubani sono, come sempre, lieti di arrotondare i loro magri stipendi statali con mance ed extra, per cui ci accordiamo, per 5 CUC a testa, con i tassisti che debbono condurre alla stessa meta una comitiva di turisti brasiliani. Questi hanno dovuto lasciare il pullman per procedere in auto, perché quest’ultimo tratto di strada è particolarmente impegnativo.
La nostra partenza però è ritardata dal fatto che uno dei taxi è requisito d’urgenza per trasportare un bambino in ospedale. Si teme si tratti di un caso di colera. Nonostante, infatti, la massiccia campagna di prevenzione del governo, l’uso di disinfettanti come l’ipoclorito di sodio e le condizioni sanitarie sostanzialmente buone, il calore tropicale fa sì che le infezioni nascano e si diffondano facilmente. Tuttavia l’unica grave epidemia di colera risale all’anno scorso, quando ci furono oltre un centinaio di morti, ma si trattava di una forma particolarmente virulenta del morbo, probabilmente importata inconsapevolmente dai volontari cubani all’opera a Haiti. A scanso di rischi, a metà strada, ci fermiamo ad un posto di blocco medico, dove ci vengono disinfettate le mani.
La strada è davvero brutta come la ricordavamo: il manto stradale, butterato dalle buche, si arrampica sulle pendici delle montagne tra tornanti e brusche salite. Nell’ultimo tratto, più ripido, la strada è pavimentata con lastroni di cemento, ma resta al di fuori della portata di un guidatore inesperto. L’altra volta, il tassista si era portato egregiamente, alla guida di una Lada, mentre ora possiamo contare su mezzi più moderni. Il caso vuole che si tratti delle stesse jeep coreane, i Rexton della Ssongyong, che il governo cubano compra dalla ditta per cui lavora la mia fidanzata. Infatti, non è loro permesso vendere direttamente a privati cittadini, anche se questi possono tranquillamente acquistare autoveicoli dallo Stato o da altri privati. Comunque sia, entro le sei di pomeriggio siamo a Villa Santo Domingo, un remoto villaggio incuneato tra le montagne, nell’alta valle del fiume Yara, punto di partenza privilegiato per chiunque si avventuri nella Sierra Maestra.
Il nostro albergo sorge proprio a questo fine, ed è composto di una serie di confortevoli bungalow sparsi tra la strada e il torrente, corredato da un bar-ristorante, la reception e altri servizi. Diversamente dai mostri cementizi di Varadero, questo hotel è costruito per integrarsi con l’ambiente naturale e culturale circostante. Subito sotto, sorge il villaggio vero e proprio, e varie altre casupole giacciono disseminate a monte e a valle. Si tratta di tipiche casupole a un solo piano costruite con assi di legno e tetti di foglie essiccate ed intrecciate. Nonostante l’apparenza misera, sono dotate di luce, acqua, gas e telefono, e il villaggio è dotato di un ambulatorio medico e di una scuola elementare. Rispetto all’Avana, è sicuramente più difficile procurarsi beni di consumo, ma il cibo non manca: maiali, galline, pecore e capre vagano tutt’attorno le case e gli orti.
Evitando il ristorante dell’albergo, ceniamo in un paladar, ossia una casa privata che fa servizio di ristorazione. Concordiamo con la padrona di casa l’orario e la pietanza. La cena ci è servita in giardino, sotto una tettoia. Dopo un piatto di frutta fresca (guaiava, cocco e pera – frutto raro a Cuba) e uno di tostones (plantani fritti), viene il piatto forte: capretto in umido, accompagnato da congrí. Le porzioni sono abbondanti per quantità e, soprattutto, qualità e facciamo onore alla cucina della nostra ospite. Comprendendo gli extra, come le bevande e il caffè, e al netto delle lamentele sui tre figli da mantenere, il prezzo resta accettabile (10 CUC a testa), e inferiore alla media dei paladares, i quali sono rivolti prevalentemente ai turisti. Fatta scorta di acqua in bottiglia presso il bar, ci corichiamo presto, in attesa di affrontare l’ascesa del Pico Turquino, la più alta cima di Cuba
Decidiamo di prendercela comoda, approfittando di quest’oasi di comodità. Nonostante sia formalmente un 2-stelle e il prezzo sia contenuto (44 CUC a notte per una doppia), quanto ad agi, spaziosità e servizi, potrebbe valerne benissimo 3 o 4. Dopo un’abbondante colazione continentale a buffet, zaino in spalla, ci dedichiamo alla ricerca di un mezzo per raggiungere il villaggio di Villa Santo Domingo, nel cuore della Sierra Maestra. Quattro anni prima, vi eravamo andati in tassì. Certo, se consideriamo che, tra andata e ritorno, si trattava di circa 160 km di strada, non di rado molto dissestata, e che il tassista ci aveva attesi per le ore necessarie all’escursione, i 70 CUC pagati non costituivano poi un prezzo esagerato, ma questa volta speravamo in un’alternativa più economica.
Poiché avevamo pensato al treno, ci dirigiamo in bici-taxi verso la stazione ferroviaria, per scoprire però che la maggior parte dei pochi treni previsti sono stati cancellati. I trasporti ferroviari cubani sono a buon mercato, ma i treni sono antiquati, le corse rare e gli orari instabili. Per rendere l’idea, si può dire che stanno ai Regionali di Trenitalia come questi stanno agli Shinkansen giapponesi. È domenica e la città è affollata di famiglie in festa, che affollano le giostre e i baracchini dei luna-park. L’ufficio di cambiavalute è chiuso, ma si riesce a cambiare in strada, con una commissione accettabile (1 € per 1,20 CUC, anziché per 1,25). In generale, ci sono molte meno automobili che all’Avana, ma carretti, carrozzelle e bici-taxi, tutti posseduti e gestiti da privati, ottemperano ai trasporti urbani. Perciò, torniamo sui nostri passi, alla stazione degli autobus, dove troviamo un camión diretto verso Manzanillo.
Il tragitto fino a Yara (45 km) ci costa 11 MN a testa, ma il trasporto locale è meno comodo rispetto a quello a lunga distanza. Nel cassone trovano posto due panche per lato, rivolte verso l’interno, e una quinta fila al centro, in piedi: dopotutto, i machacantes vogliono rientrare dei costi. Ci sarebbe l’alternativa delle corriere provinciali della Astro, ma non sono accessibili ai turisti. Dopo un’ora abbondante arriviamo in paese: case basse assiepate intorno a due stradoni che s’incrociano perpendicolarmente. Il calore pomeridiano contribuisce all’atmosfera spaghetti-western. Essendo giorno festivo, troviamo comunque di che ristorarci, tra le bancarelle dei particulares (ossia privati) che vendono gelati, refrescos (bibite), panini, pizzette, ecc., e la cafetería statale dell’autostazione, scarna ma essenziale: un bancone e un refrigeratore. Nonostante l’industria e l’agricoltura cubane lascino a desiderare, quantomeno la produzione di rum resta eccellente, e quella di birra tutto sommato rispettabile.
Il paese resta famoso per essere il luogo natale dell’eroe delle guerre d’indipendenza Carlos Manuel de Céspedes, un rispettabile proprietario terriero che il 10 ottobre 1868 armò gli uomini della sua casa (famigliari, dipendenti e schiavi) e lanciò il famoso Grito de Yara, dando inizio all’insurrezione contro il dominio coloniale spagnolo. Da Yara, troviamo quindi un carro particular, ossia un’auto privata, che fa la ruta (tratta) da e per Bartolomé Masó. Ce ne sono anche all’Avana, di questi tassì collettivi con un percorso programmato, che costituiscono la via di mezzo tra gli autobus e i tassì individuali. Come nella Capitale, anche questo costa 10 MN a persona. Attraversiamo ormai l’aperta campagna, costellata di casette di legno a un solo piano, circondate dai campi e dai pascoli: vacche, pecore, maiali, qualche cavallo. Il caldo è afoso e la pianura verdeggiante è interrotta solo qua e là da alberi isolati. È con grande emozione che vedo levarsi innanzi a noi la verde mole della Sierra Maestra.
Nel centro abitato di Bartolomé Masó, che prende il nome di un generale delle guerre d’indipendenza (l’ultima, quella del 1895-1898), finiscono la ferrovia e i mezzi pubblici. Per andare avanti, come dicono i Cubani, hay que inventar, bisogna inventarsi qualcosa. Dopo esserci rinfrancati con un batido de fruta alla guaiava, chiediamo indicazioni agli indigeni. Ne emerge che dobbiamo raggiungere una collinetta poco fuori dal paese, dove fanno tappa i taxi e gli autobus turistici, e trattare un passaggio per Villa Santo Domingo. I cubani sono, come sempre, lieti di arrotondare i loro magri stipendi statali con mance ed extra, per cui ci accordiamo, per 5 CUC a testa, con i tassisti che debbono condurre alla stessa meta una comitiva di turisti brasiliani. Questi hanno dovuto lasciare il pullman per procedere in auto, perché quest’ultimo tratto di strada è particolarmente impegnativo.
La nostra partenza però è ritardata dal fatto che uno dei taxi è requisito d’urgenza per trasportare un bambino in ospedale. Si teme si tratti di un caso di colera. Nonostante, infatti, la massiccia campagna di prevenzione del governo, l’uso di disinfettanti come l’ipoclorito di sodio e le condizioni sanitarie sostanzialmente buone, il calore tropicale fa sì che le infezioni nascano e si diffondano facilmente. Tuttavia l’unica grave epidemia di colera risale all’anno scorso, quando ci furono oltre un centinaio di morti, ma si trattava di una forma particolarmente virulenta del morbo, probabilmente importata inconsapevolmente dai volontari cubani all’opera a Haiti. A scanso di rischi, a metà strada, ci fermiamo ad un posto di blocco medico, dove ci vengono disinfettate le mani.
La strada è davvero brutta come la ricordavamo: il manto stradale, butterato dalle buche, si arrampica sulle pendici delle montagne tra tornanti e brusche salite. Nell’ultimo tratto, più ripido, la strada è pavimentata con lastroni di cemento, ma resta al di fuori della portata di un guidatore inesperto. L’altra volta, il tassista si era portato egregiamente, alla guida di una Lada, mentre ora possiamo contare su mezzi più moderni. Il caso vuole che si tratti delle stesse jeep coreane, i Rexton della Ssongyong, che il governo cubano compra dalla ditta per cui lavora la mia fidanzata. Infatti, non è loro permesso vendere direttamente a privati cittadini, anche se questi possono tranquillamente acquistare autoveicoli dallo Stato o da altri privati. Comunque sia, entro le sei di pomeriggio siamo a Villa Santo Domingo, un remoto villaggio incuneato tra le montagne, nell’alta valle del fiume Yara, punto di partenza privilegiato per chiunque si avventuri nella Sierra Maestra.
Il nostro albergo sorge proprio a questo fine, ed è composto di una serie di confortevoli bungalow sparsi tra la strada e il torrente, corredato da un bar-ristorante, la reception e altri servizi. Diversamente dai mostri cementizi di Varadero, questo hotel è costruito per integrarsi con l’ambiente naturale e culturale circostante. Subito sotto, sorge il villaggio vero e proprio, e varie altre casupole giacciono disseminate a monte e a valle. Si tratta di tipiche casupole a un solo piano costruite con assi di legno e tetti di foglie essiccate ed intrecciate. Nonostante l’apparenza misera, sono dotate di luce, acqua, gas e telefono, e il villaggio è dotato di un ambulatorio medico e di una scuola elementare. Rispetto all’Avana, è sicuramente più difficile procurarsi beni di consumo, ma il cibo non manca: maiali, galline, pecore e capre vagano tutt’attorno le case e gli orti.
Evitando il ristorante dell’albergo, ceniamo in un paladar, ossia una casa privata che fa servizio di ristorazione. Concordiamo con la padrona di casa l’orario e la pietanza. La cena ci è servita in giardino, sotto una tettoia. Dopo un piatto di frutta fresca (guaiava, cocco e pera – frutto raro a Cuba) e uno di tostones (plantani fritti), viene il piatto forte: capretto in umido, accompagnato da congrí. Le porzioni sono abbondanti per quantità e, soprattutto, qualità e facciamo onore alla cucina della nostra ospite. Comprendendo gli extra, come le bevande e il caffè, e al netto delle lamentele sui tre figli da mantenere, il prezzo resta accettabile (10 CUC a testa), e inferiore alla media dei paladares, i quali sono rivolti prevalentemente ai turisti. Fatta scorta di acqua in bottiglia presso il bar, ci corichiamo presto, in attesa di affrontare l’ascesa del Pico Turquino, la più alta cima di Cuba
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Re: Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
3° giorno (lunedì 22 luglio): Villa Santo Domingo – Joachim
Il giorno dopo, partiamo prima ancora che albeggi, con l’intenzione di raggiungere la vetta del Turquino, che domina l’isola dall’alto dei suoi 1974 m sul livello del mare. In base alle informazioni in nostro possesso relativamente alle distanze e al dislivello, dovremmo impiegare al massimo sei ore a salire e quattro a scendere sull’altro versante. Come vedremo, questi calcoli, fondati sulla mia quasi ventennale esperienza escursionistica nelle Alpi, dovevano rivelarsi errati. Inoltre, trattandosi di un parco nazionale, tutte le escursioni devono avvenire con l’accompagnamento della guida. Perciò, contrattiamo il prezzo direttamente all’ingresso del parco. Io pago 50 CUC, comprensivi di guida, pranzo, cena, pernottamento e colazione, mentre la mia fidanzata, in quanto residente temporanea, paga lo stesso prezzo dei Cubani, ossia 5 MN (250 volte meno!), sia pure per la sola guida, senza pasti né pernottamento. Mi rifiuto però di sborsare altri 5 CUC a testa per il trasporto in jeep dall’ingresso del parco, a Villa Santo Domingo, fino ad Alto del Naranjo, luogo di partenza del sentiero.
Alle 7.40 cominciamo quindi ad inerpicarci sulla ripida carrozzabile che si snoda a tornanti verso l’alto per un totale di 500 m di dislivello per 5 km di lunghezza, il che spiega perché la maggioranza dei turisti si rifiuti di farla a piedi. Dopo 1 ora e 45 minuti di dura fatica, arriviamo alla piazzola dove sostano le jeep e partono le escursioni. A destra, una passeggiata di 5 km conduce alla Comandancia La Plata, quartiere generale dell’Ejercito Rebelde durante la Rivoluzione. Si trattava dell’itinerario percorso quattro anni fa e con un certo brio, tanto che la guida aveva allungato il passo, facendoci visitare anche l’ospedale da campo dove operava Ernesto Guevara, prima di passare a mansioni direttive. E i versi di “Hasta Siempre Comandante Che Guevara” erano risuonati nel verde di questi sentieri con cadenza assai migliore che nell’aria greve di hashish e sudore dei centri sociali. La Comandancia La Plata è la meta più spesso gettonata dai turisti che visitano la Sierra, a ragione della sua facilità, anche se vi sono casi irrecuperabili che si presentano in sandali o in ballerine. Tutt’altra storia per il Turquino che è ritenuto particolarmente arduo dalla popolazione autoctona e quindi viene solitamente percorso nell’arco di due giorni, o addirittura tre. Solo in pochi l’affrontano nell’arco di una giornata.
Personalmente, ero scettico, ma solo col farne esperienza diretta, ne ho compreso la ragione. Partiamo da Alto del Naranjo (950 m) alle 9.40, proseguendo più o meno in piano fino all’altezza di La Platica, una comunità ecologica abitata dalle guida e dai custodi del parco. Poi il sentiero comincia a salire in maniera abbastanza decisa. Non è passata neanche un’ora che incontriamo una comitiva di portoricani che stava discendendo dal Turquino, dopo aver scalato la vetta, in segno d’amicizia tra Cuba e Portorico, considerate da Martí due nazioni gemelle, per essere state le ultime due colonie spagnole nei Caraibi, entrambe concupite a lungo da Washington. Dopo quest’incontro, inizio a riscontrare le prime difficoltà, dovute essenzialmente al clima. Infatti, il sentiero era ben tracciato, senza tratti difficili o esposti, anzi, spesso procedeva a gradoni, con uno steccato di legno come corrimano, o agevolato da scale a pioli nei punti più ripidi. Inoltre, in ampia parte, esso procedeva lungo la cresta della catena montuosa, ma era protetto dal sole da una fitta coltre di alberi e liane.
Tuttavia, sebbene non fosse ancora mezzogiorno, l’aria era già satura di un calore umido e afoso, tale da risultare soffocante. In queste circostanze, l’umidità impregna i polmoni, rendendo più difficile la respirazione, come se si procedesse con la testa in un sacchetto di plastica, e il cuore batte disperatamente cercando di supplire l’ossigeno richiesto dai muscoli sotto sforzo. Non era tanto l’allenamento alla montagna che ci mancava, nonostante si trattasse già di un’escursione di tutto rispetto di per sé, quanto l’abitudine alla foresta tropicale. La guida ci confermò che accadeva spesso agli escursionisti europei, ancorché impratichiti delle Alpi, di incontrare queste difficoltà nella vera e propria giungla che ricopriva questi rilievi. La loro modesta altitudine diventava perciò perniciosa al pari delle giogaie nostrane coperte di roccia e neve. Se poi aggiungiamo che portavamo con noi nello zaino tutti i nostri bagagli per questi nove giorni, è evidente come la difficoltà aumentasse.
Il sentiero proseguiva per 8 km buoni, regolarmente scanditi da cippi miliari in legno, in direzione orientale, salendo e scendendo lungo la dorsale montuosa. Superiamo Palma Mocha, che si affaccia sul versante meridionale e ci regala la visione del mare in lontananza, mentre il Turquino resta velato dalle nuvole di vapore che salgono dal mare, a causa del caldo. Ascendiamo pazientemente, con frequenti pause, la sommità spoglia della Loma del León, dalla quale vediamo sotto di noi i tetti sparsi di Villa Santo Domingo e lo specchio d’argento del lago artificiale Bartolomé Masó. Scendiamo a sostare presso Lima, due panchine di tronchi, prendendo il fiato per gli ultimi due eterni chilometri. È con estremo sollievo che, alle ore 16.00, poco dopo il fatale ottavo chilometro, si apre innanzi a noi una radura, sulle pendici del Pico Joachim, dove ha sede il rifugio, in cui abbiamo ormai stabilito di pernottare, data l’ora tarda.
L’accampamento Joachim è composto da due baracche, una adibita a cucina e sala da pranzo, dove pernottano le guide, e una composta da due camerate di letti a castello. Le docce e i bagni sono a parte. Una fila di pannelli solari consente di far funzionare un generatore di elettricità, mentre i rifornimenti arrivano a dorso di mulo. Per cui, pranziamo a base di carne di maiale e congrí, tostones e verdure, ossia la comida criolla, il piatto tipico cubano, ma in porzioni abbondanti, come si conviene a chi affronti queste fatiche. Quanto alla mia fidanzata, presumono automaticamente che, in quanto straniera, abbia pagato il prezzo pieno, e pertanto gode senza problemi del mio stesso trattamento. Sono disponibili anche acqua minerale, birra e refrescos, ma ci accontentiamo di un’eccellente acqua di fonte. A questa altitudine, possiamo stare tranquilli, non essendo nel numero dei borghesucci europei che, per paranoia igienista, preparano il caffè o si lavano i denti con l’acqua minerale. Occupiamo due posti in una camerata, e ci prepariamo a passare la notte in questo luogo, riposandoci intanto dalle otto ore e mezza di marcia. Mi scopro un’escoriazione sul fianco destro, dove la cintura di cuoio si è strofinata sulla nuda pelle. Fortunatamente, però non sembro essermi scottato, nonostante la mia carnagione chiara soffra molto i raggi del sole.
Dopo mezz’ora dal nostro arrivo, siamo raggiunti da una coppia di mezza età, con cui intavolo due chiacchiere in inglese, dato che non parlano spagnolo, il che a Cuba è un incomodo piuttosto grave. Si tratta di due danesi, che hanno scalato il Turquino salendo da Las Cuevas, partendo alle otto di mattina. Col senno di poi, considerando anche i loro capelli grigi, va detto che si sono portati molto bene, per quanto non fossero certo ridotti in condizioni migliori delle nostre. Si coricano presto, mentre noi ceniamo alle sette, dovendo compensare la mancata colazione e riprendere a dovere le forze. Con la guida concordiamo di partire domani prima dell’alba, per raggiungere presto la vetta. Perciò ci corichiamo anche noi, profittando del fatto che il fresco tiene lontane moscerini e zanzare. Ci tocca però dormire vestiti, con maglia di cotone e coperta di lana, e anche così finisco per rimediare un po’ di mal di gola.
Il giorno dopo, partiamo prima ancora che albeggi, con l’intenzione di raggiungere la vetta del Turquino, che domina l’isola dall’alto dei suoi 1974 m sul livello del mare. In base alle informazioni in nostro possesso relativamente alle distanze e al dislivello, dovremmo impiegare al massimo sei ore a salire e quattro a scendere sull’altro versante. Come vedremo, questi calcoli, fondati sulla mia quasi ventennale esperienza escursionistica nelle Alpi, dovevano rivelarsi errati. Inoltre, trattandosi di un parco nazionale, tutte le escursioni devono avvenire con l’accompagnamento della guida. Perciò, contrattiamo il prezzo direttamente all’ingresso del parco. Io pago 50 CUC, comprensivi di guida, pranzo, cena, pernottamento e colazione, mentre la mia fidanzata, in quanto residente temporanea, paga lo stesso prezzo dei Cubani, ossia 5 MN (250 volte meno!), sia pure per la sola guida, senza pasti né pernottamento. Mi rifiuto però di sborsare altri 5 CUC a testa per il trasporto in jeep dall’ingresso del parco, a Villa Santo Domingo, fino ad Alto del Naranjo, luogo di partenza del sentiero.
Alle 7.40 cominciamo quindi ad inerpicarci sulla ripida carrozzabile che si snoda a tornanti verso l’alto per un totale di 500 m di dislivello per 5 km di lunghezza, il che spiega perché la maggioranza dei turisti si rifiuti di farla a piedi. Dopo 1 ora e 45 minuti di dura fatica, arriviamo alla piazzola dove sostano le jeep e partono le escursioni. A destra, una passeggiata di 5 km conduce alla Comandancia La Plata, quartiere generale dell’Ejercito Rebelde durante la Rivoluzione. Si trattava dell’itinerario percorso quattro anni fa e con un certo brio, tanto che la guida aveva allungato il passo, facendoci visitare anche l’ospedale da campo dove operava Ernesto Guevara, prima di passare a mansioni direttive. E i versi di “Hasta Siempre Comandante Che Guevara” erano risuonati nel verde di questi sentieri con cadenza assai migliore che nell’aria greve di hashish e sudore dei centri sociali. La Comandancia La Plata è la meta più spesso gettonata dai turisti che visitano la Sierra, a ragione della sua facilità, anche se vi sono casi irrecuperabili che si presentano in sandali o in ballerine. Tutt’altra storia per il Turquino che è ritenuto particolarmente arduo dalla popolazione autoctona e quindi viene solitamente percorso nell’arco di due giorni, o addirittura tre. Solo in pochi l’affrontano nell’arco di una giornata.
Personalmente, ero scettico, ma solo col farne esperienza diretta, ne ho compreso la ragione. Partiamo da Alto del Naranjo (950 m) alle 9.40, proseguendo più o meno in piano fino all’altezza di La Platica, una comunità ecologica abitata dalle guida e dai custodi del parco. Poi il sentiero comincia a salire in maniera abbastanza decisa. Non è passata neanche un’ora che incontriamo una comitiva di portoricani che stava discendendo dal Turquino, dopo aver scalato la vetta, in segno d’amicizia tra Cuba e Portorico, considerate da Martí due nazioni gemelle, per essere state le ultime due colonie spagnole nei Caraibi, entrambe concupite a lungo da Washington. Dopo quest’incontro, inizio a riscontrare le prime difficoltà, dovute essenzialmente al clima. Infatti, il sentiero era ben tracciato, senza tratti difficili o esposti, anzi, spesso procedeva a gradoni, con uno steccato di legno come corrimano, o agevolato da scale a pioli nei punti più ripidi. Inoltre, in ampia parte, esso procedeva lungo la cresta della catena montuosa, ma era protetto dal sole da una fitta coltre di alberi e liane.
Tuttavia, sebbene non fosse ancora mezzogiorno, l’aria era già satura di un calore umido e afoso, tale da risultare soffocante. In queste circostanze, l’umidità impregna i polmoni, rendendo più difficile la respirazione, come se si procedesse con la testa in un sacchetto di plastica, e il cuore batte disperatamente cercando di supplire l’ossigeno richiesto dai muscoli sotto sforzo. Non era tanto l’allenamento alla montagna che ci mancava, nonostante si trattasse già di un’escursione di tutto rispetto di per sé, quanto l’abitudine alla foresta tropicale. La guida ci confermò che accadeva spesso agli escursionisti europei, ancorché impratichiti delle Alpi, di incontrare queste difficoltà nella vera e propria giungla che ricopriva questi rilievi. La loro modesta altitudine diventava perciò perniciosa al pari delle giogaie nostrane coperte di roccia e neve. Se poi aggiungiamo che portavamo con noi nello zaino tutti i nostri bagagli per questi nove giorni, è evidente come la difficoltà aumentasse.
Il sentiero proseguiva per 8 km buoni, regolarmente scanditi da cippi miliari in legno, in direzione orientale, salendo e scendendo lungo la dorsale montuosa. Superiamo Palma Mocha, che si affaccia sul versante meridionale e ci regala la visione del mare in lontananza, mentre il Turquino resta velato dalle nuvole di vapore che salgono dal mare, a causa del caldo. Ascendiamo pazientemente, con frequenti pause, la sommità spoglia della Loma del León, dalla quale vediamo sotto di noi i tetti sparsi di Villa Santo Domingo e lo specchio d’argento del lago artificiale Bartolomé Masó. Scendiamo a sostare presso Lima, due panchine di tronchi, prendendo il fiato per gli ultimi due eterni chilometri. È con estremo sollievo che, alle ore 16.00, poco dopo il fatale ottavo chilometro, si apre innanzi a noi una radura, sulle pendici del Pico Joachim, dove ha sede il rifugio, in cui abbiamo ormai stabilito di pernottare, data l’ora tarda.
L’accampamento Joachim è composto da due baracche, una adibita a cucina e sala da pranzo, dove pernottano le guide, e una composta da due camerate di letti a castello. Le docce e i bagni sono a parte. Una fila di pannelli solari consente di far funzionare un generatore di elettricità, mentre i rifornimenti arrivano a dorso di mulo. Per cui, pranziamo a base di carne di maiale e congrí, tostones e verdure, ossia la comida criolla, il piatto tipico cubano, ma in porzioni abbondanti, come si conviene a chi affronti queste fatiche. Quanto alla mia fidanzata, presumono automaticamente che, in quanto straniera, abbia pagato il prezzo pieno, e pertanto gode senza problemi del mio stesso trattamento. Sono disponibili anche acqua minerale, birra e refrescos, ma ci accontentiamo di un’eccellente acqua di fonte. A questa altitudine, possiamo stare tranquilli, non essendo nel numero dei borghesucci europei che, per paranoia igienista, preparano il caffè o si lavano i denti con l’acqua minerale. Occupiamo due posti in una camerata, e ci prepariamo a passare la notte in questo luogo, riposandoci intanto dalle otto ore e mezza di marcia. Mi scopro un’escoriazione sul fianco destro, dove la cintura di cuoio si è strofinata sulla nuda pelle. Fortunatamente, però non sembro essermi scottato, nonostante la mia carnagione chiara soffra molto i raggi del sole.
Dopo mezz’ora dal nostro arrivo, siamo raggiunti da una coppia di mezza età, con cui intavolo due chiacchiere in inglese, dato che non parlano spagnolo, il che a Cuba è un incomodo piuttosto grave. Si tratta di due danesi, che hanno scalato il Turquino salendo da Las Cuevas, partendo alle otto di mattina. Col senno di poi, considerando anche i loro capelli grigi, va detto che si sono portati molto bene, per quanto non fossero certo ridotti in condizioni migliori delle nostre. Si coricano presto, mentre noi ceniamo alle sette, dovendo compensare la mancata colazione e riprendere a dovere le forze. Con la guida concordiamo di partire domani prima dell’alba, per raggiungere presto la vetta. Perciò ci corichiamo anche noi, profittando del fatto che il fresco tiene lontane moscerini e zanzare. Ci tocca però dormire vestiti, con maglia di cotone e coperta di lana, e anche così finisco per rimediare un po’ di mal di gola.
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Re: Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
4° giorno (martedì 23 luglio): Joachim – Las Cuevas
Ci svegliamo alle 4.30 di mattina, e consumiamo la colazione, a base di gallette, formaggio, latte e thé, prima di metterci in marcia. Dopo un’oretta siamo pronti ad iniziare l’ascesa del Pico Joachim, con l’aiuto di torcette. Il sentiero si arrampica ripidamente nel bosco fino alla sommità, per poi piegare verso sud e seguire la cresta montana fino al Pico Turquino, per un totale di 5 km. Dopo un’ora, abbiamo raggiunto la prima cima, e il sole albeggia tra le fronde. Continuiamo in piano oltre il Regino che, come il Joaquim, ha preso il nome da due contadini dei dintorni. Superiamo poi il ripido Paso de los Monos, ossia il “Passo delle Scimmie”, così chiamato per le sue pareti scoscese, da entrambe i lati. Infine, ci inerpichiamo sulle pendici della Loma Redonda, appena sotto la vetta più alta. Qui la nostra guida ci lascia, in modo di tornare in tempo a casa sua, a Villa Santo Domingo. La via, però, ancorché ripida, resta molto ben tracciata, e procede sotto le fronde, fino alla fine.
La sommità del Turquino, che coi suoi 1974 m si leva alta al di sopra delle altre cime dell’isola, è una radura spaziosa e pianeggiante, priva di veri e propri balconi panoramici, circondata com’è di alberi e cespugli. La montagna costituisce di per sé un’isola climatica, più fresca rispetto alle alture sottostanti, ricoperte da una fitta giungla, e spesso nascoste da un’umida nebbia di vapore che sale dalla costa. Al centro, su un pilastro di pietre, troneggia un busto bronzeo di José Martí. La targa ricorda che fu portato su il 21 maggio 1953, nel centenario della sua nascita, per iniziativa di una decina di giovani studenti di Santiago, come sorta di sfida morale alla dittatura di Batista. Tra loro, vi era Célia Sánchez, che sarebbe diventata una dei più stretti collaboratori di Fidel Castro. É uscito l’anno scorso un libro di Carlos Manuel Marchante Castellanos che racconta nel dettaglio questa impresa. La nostra guida, che dovrebbe accompagnarci nella discesa, ci attende riposando. Arriviamo in cima alle 9.45 e, un quarto d’ora dopo, già ripartiamo, iniziando la discesa verso Las Cuevas, sull’altro versante della cordigliera, distante 10 km.
Il sentiero discende, prima di salire un poco per passare a fianco del Pico Cuba (1872 m), seconda vetta dell’isola, e poi riprende a scendere, senza soste, fino al livello del mare. Poco sotto il Cuba, sorge un altro accampamento, attualmente abbandonato per mancanza di scorte d’acqua. Qui sorge un altro busto di bronzo, dedicato a Frank País, uno dei capi del Movimento 26 Luglio, assassinato dagli sgherri di Batista durante la Rivoluzione. Più avanti, un tratto esposto del sentiero è denominato Paso del Cadete, poiché un cadetto dell’esercito vi sarebbe caduto, sopravvivendo miracolosamente alla caduta. Solo dopo il Pico Cardero (1265 m), passate le due ore di discesa, comincio ad avvertire la fatica e una forte stanchezza alle gambe, che mi costringe a frequenti soste. Ripartiamo, dopo una lunga sosta alla comunità ecologica di La Esmajagua (600 m),
dove le guide del parco vivono, praticando l’agricoltura e l’allevamento. Da qui, si prosegue scendendo una strada sterrata, un tempo forse percorribile dai fuoristrada, ma ora impraticabile, se non a piedi. Mancano ormai meno di 2 km, quando usciamo dal folto degli alberi, e un’ampia strada sterrata scende fino al mare. I colori sono vivissimi: il rosso della terra, il blu del mare, l’azzurro del cielo, il verde della macchia. Raccogliamo tutte le nostre energie residue per queste ultime centinaia di metri, fino ad arrivare, alle 16.20, all’altro ingresso del parco, a Las Cuevas.
Restiamo a lungo seduti ai tavoli su una terrazza di legno che si affaccia sull’immensità del Mare dei Caraibi, quasi incapaci di fare altro, godendoci una meritata birra. Sotto di noi, una lunga strada polverosa, a malapena asfaltata, si snoda da occidente ad oriente, ai piedi delle pendici della Sierra che scendono fin quasi alla riva: è la famigerata Carrettera Granma – Chivirico. Sotto la strada, le onde del mare s’infrangono su una spiaggia sassosa. Le case del paese sono sparse in lontananza, alla nostra destra e alla nostra sinistra, dietro gli alberi. Si tratta di una delle zone più secche di Cuba, poiché le precipitazioni tendono a cadere più in alto, sulle montagne, e la vegetazione ricorda in parte la macchia mediterranea. In Oriente, specialmente sulla costa meridionale, fa molto più caldo rispetto all’Avana. Poiché è ormai tardi e sulla strada non passa quasi nessuno, decidiamo di pernottare lì e ripartire il giorno dopo, all’alba. Verso sera, quando ormai il sole non picchia con la stessa forza, scendiamo sulla riva, a bagnarci sulla battigia. La marea sta salendo, e le onde s’infrangono con forza sulle pietre del bagnasciuga, per cui non riteniamo prudente scendere in mare.
Riflettiamo sulla fatica compiuta, e dobbiamo ammettere che il Turquino costituisce effettivamente una meta impegnativa, anche se pare che il Presidente Raúl Castro l’abbia recentemente salito, all’età di settant’anni. Tuttavia, non abbiamo mai dubitato che ne fosse valsa la pena, per via della grande bellezza naturalistica dei luoghi, oltre che per il piacere della montagna di per sé. La giungla cubana è molto intricata, e gode a tutte le altitudini di una vegetazione lussureggiante, tanto che finalmente comprendo davvero la distinzione tra il bosco antropizzato e la selva primigenia, che un professore mi aveva sollevato, allorché si parlava del Waldgänger di Jünger. D’altra parte, del tutto priva di animali pericolosi, anzi, mancano quasi del tutto i mammiferi, eccetto per i roditori, e abbondano invece piccoli rettili (non velenosi), uccelli e insetti. Lungo la via, avvistiamo uno scarabeo, una limaccia, un colibrì, escrementi di cutía – una sorta di grossa cavia, una lucertola, una scolopendra, un geco, ma soprattutto troviamo per terra, due penne di tocororo, l’uccello nazionale cubano, per via del suo manto rosso, bianco e azzurro, come la bandiera nazionale. Lo prendiamo per un buon auspicio.
D’altra parte, è un’escursione, non priva di risvolti storici, anche se in maniera meno evidente rispetto alla Comandancia La Plata. Ad ogni modo, s’intuisce quali debbano essere state le sofferenze e le fatiche dei guerriglieri nella Sierra, specialmente nei primi mesi. Al tempo stesso, si comprende fin troppo bene come mai le offensive lanciate dall’esercito regolare siano sempre fallite clamorosamente. All’epoca, la strada si fermava a Villa Santo Domingo, per cui bisognava inerpicarsi faticosamente in mezzo alla giungla, appesantiti dalle armi e dall’equipaggiamento, esposti al calore e all’umidità, oltre che alle pallottole dei rivoluzionari, senza peraltro la certezza di trovarli, vista l’omertà della popolazione civile. Si trattava di un’impresa ben al di là delle capacità dei fantaccini di Batista, addestrati e comandati alla buona, e senza la minima preparazione alle operazioni di controguerriglia.
Del resto, la Rivoluzione Cubana prese un po’ tutti di sorpresa, specie a Washington. Da allora, la CIA si premurò di fornire agli apparati repressivi delle sue neo-colonie americane un buon addestramento alla repressione dei movimenti di guerriglia, in modo da evitare che il caso di Cuba si ripetesse. Ne fece le spese Ernesto Guevara in Bolivia, quando si trovò di fronte un nemico molto più abile e determinato, e senza appoggio né dalla popolazione indigena, né dal Partito Comunista locale, obbediente agli ordini di Mosca, insofferente verso uno spirito così rivoluzionario. Viceversa, nella Sierra Maestra c’erano tutte le condizioni perché l’Ejercito Rebelde si rafforzasse man mano, grazie al sostegno dei campesinos e la protezione della natura. Non a caso, José Martí aveva scritto che chi controlla la Sierra Maestra, controlla l’Oriente, e che chi controlla l’Oriente controlla Cuba.
Tra questi ed altri pensieri, ci corichiamo al calare del sole, in una stanza spartana con due brande ed un bagno privo di acqua corrente. Abbiamo poca fame, ma molta sete. Fortunatamente, il rifugio, presidiato tutta la notte, ha un servizio bar. Tuttavia, nonostante la stanchezza accumulata, non è facile dormire tra il calore e la gola infiammata, le vesciche, la scomodità e le zanzare.
Ci svegliamo alle 4.30 di mattina, e consumiamo la colazione, a base di gallette, formaggio, latte e thé, prima di metterci in marcia. Dopo un’oretta siamo pronti ad iniziare l’ascesa del Pico Joachim, con l’aiuto di torcette. Il sentiero si arrampica ripidamente nel bosco fino alla sommità, per poi piegare verso sud e seguire la cresta montana fino al Pico Turquino, per un totale di 5 km. Dopo un’ora, abbiamo raggiunto la prima cima, e il sole albeggia tra le fronde. Continuiamo in piano oltre il Regino che, come il Joaquim, ha preso il nome da due contadini dei dintorni. Superiamo poi il ripido Paso de los Monos, ossia il “Passo delle Scimmie”, così chiamato per le sue pareti scoscese, da entrambe i lati. Infine, ci inerpichiamo sulle pendici della Loma Redonda, appena sotto la vetta più alta. Qui la nostra guida ci lascia, in modo di tornare in tempo a casa sua, a Villa Santo Domingo. La via, però, ancorché ripida, resta molto ben tracciata, e procede sotto le fronde, fino alla fine.
La sommità del Turquino, che coi suoi 1974 m si leva alta al di sopra delle altre cime dell’isola, è una radura spaziosa e pianeggiante, priva di veri e propri balconi panoramici, circondata com’è di alberi e cespugli. La montagna costituisce di per sé un’isola climatica, più fresca rispetto alle alture sottostanti, ricoperte da una fitta giungla, e spesso nascoste da un’umida nebbia di vapore che sale dalla costa. Al centro, su un pilastro di pietre, troneggia un busto bronzeo di José Martí. La targa ricorda che fu portato su il 21 maggio 1953, nel centenario della sua nascita, per iniziativa di una decina di giovani studenti di Santiago, come sorta di sfida morale alla dittatura di Batista. Tra loro, vi era Célia Sánchez, che sarebbe diventata una dei più stretti collaboratori di Fidel Castro. É uscito l’anno scorso un libro di Carlos Manuel Marchante Castellanos che racconta nel dettaglio questa impresa. La nostra guida, che dovrebbe accompagnarci nella discesa, ci attende riposando. Arriviamo in cima alle 9.45 e, un quarto d’ora dopo, già ripartiamo, iniziando la discesa verso Las Cuevas, sull’altro versante della cordigliera, distante 10 km.
Il sentiero discende, prima di salire un poco per passare a fianco del Pico Cuba (1872 m), seconda vetta dell’isola, e poi riprende a scendere, senza soste, fino al livello del mare. Poco sotto il Cuba, sorge un altro accampamento, attualmente abbandonato per mancanza di scorte d’acqua. Qui sorge un altro busto di bronzo, dedicato a Frank País, uno dei capi del Movimento 26 Luglio, assassinato dagli sgherri di Batista durante la Rivoluzione. Più avanti, un tratto esposto del sentiero è denominato Paso del Cadete, poiché un cadetto dell’esercito vi sarebbe caduto, sopravvivendo miracolosamente alla caduta. Solo dopo il Pico Cardero (1265 m), passate le due ore di discesa, comincio ad avvertire la fatica e una forte stanchezza alle gambe, che mi costringe a frequenti soste. Ripartiamo, dopo una lunga sosta alla comunità ecologica di La Esmajagua (600 m),
dove le guide del parco vivono, praticando l’agricoltura e l’allevamento. Da qui, si prosegue scendendo una strada sterrata, un tempo forse percorribile dai fuoristrada, ma ora impraticabile, se non a piedi. Mancano ormai meno di 2 km, quando usciamo dal folto degli alberi, e un’ampia strada sterrata scende fino al mare. I colori sono vivissimi: il rosso della terra, il blu del mare, l’azzurro del cielo, il verde della macchia. Raccogliamo tutte le nostre energie residue per queste ultime centinaia di metri, fino ad arrivare, alle 16.20, all’altro ingresso del parco, a Las Cuevas.
Restiamo a lungo seduti ai tavoli su una terrazza di legno che si affaccia sull’immensità del Mare dei Caraibi, quasi incapaci di fare altro, godendoci una meritata birra. Sotto di noi, una lunga strada polverosa, a malapena asfaltata, si snoda da occidente ad oriente, ai piedi delle pendici della Sierra che scendono fin quasi alla riva: è la famigerata Carrettera Granma – Chivirico. Sotto la strada, le onde del mare s’infrangono su una spiaggia sassosa. Le case del paese sono sparse in lontananza, alla nostra destra e alla nostra sinistra, dietro gli alberi. Si tratta di una delle zone più secche di Cuba, poiché le precipitazioni tendono a cadere più in alto, sulle montagne, e la vegetazione ricorda in parte la macchia mediterranea. In Oriente, specialmente sulla costa meridionale, fa molto più caldo rispetto all’Avana. Poiché è ormai tardi e sulla strada non passa quasi nessuno, decidiamo di pernottare lì e ripartire il giorno dopo, all’alba. Verso sera, quando ormai il sole non picchia con la stessa forza, scendiamo sulla riva, a bagnarci sulla battigia. La marea sta salendo, e le onde s’infrangono con forza sulle pietre del bagnasciuga, per cui non riteniamo prudente scendere in mare.
Riflettiamo sulla fatica compiuta, e dobbiamo ammettere che il Turquino costituisce effettivamente una meta impegnativa, anche se pare che il Presidente Raúl Castro l’abbia recentemente salito, all’età di settant’anni. Tuttavia, non abbiamo mai dubitato che ne fosse valsa la pena, per via della grande bellezza naturalistica dei luoghi, oltre che per il piacere della montagna di per sé. La giungla cubana è molto intricata, e gode a tutte le altitudini di una vegetazione lussureggiante, tanto che finalmente comprendo davvero la distinzione tra il bosco antropizzato e la selva primigenia, che un professore mi aveva sollevato, allorché si parlava del Waldgänger di Jünger. D’altra parte, del tutto priva di animali pericolosi, anzi, mancano quasi del tutto i mammiferi, eccetto per i roditori, e abbondano invece piccoli rettili (non velenosi), uccelli e insetti. Lungo la via, avvistiamo uno scarabeo, una limaccia, un colibrì, escrementi di cutía – una sorta di grossa cavia, una lucertola, una scolopendra, un geco, ma soprattutto troviamo per terra, due penne di tocororo, l’uccello nazionale cubano, per via del suo manto rosso, bianco e azzurro, come la bandiera nazionale. Lo prendiamo per un buon auspicio.
D’altra parte, è un’escursione, non priva di risvolti storici, anche se in maniera meno evidente rispetto alla Comandancia La Plata. Ad ogni modo, s’intuisce quali debbano essere state le sofferenze e le fatiche dei guerriglieri nella Sierra, specialmente nei primi mesi. Al tempo stesso, si comprende fin troppo bene come mai le offensive lanciate dall’esercito regolare siano sempre fallite clamorosamente. All’epoca, la strada si fermava a Villa Santo Domingo, per cui bisognava inerpicarsi faticosamente in mezzo alla giungla, appesantiti dalle armi e dall’equipaggiamento, esposti al calore e all’umidità, oltre che alle pallottole dei rivoluzionari, senza peraltro la certezza di trovarli, vista l’omertà della popolazione civile. Si trattava di un’impresa ben al di là delle capacità dei fantaccini di Batista, addestrati e comandati alla buona, e senza la minima preparazione alle operazioni di controguerriglia.
Del resto, la Rivoluzione Cubana prese un po’ tutti di sorpresa, specie a Washington. Da allora, la CIA si premurò di fornire agli apparati repressivi delle sue neo-colonie americane un buon addestramento alla repressione dei movimenti di guerriglia, in modo da evitare che il caso di Cuba si ripetesse. Ne fece le spese Ernesto Guevara in Bolivia, quando si trovò di fronte un nemico molto più abile e determinato, e senza appoggio né dalla popolazione indigena, né dal Partito Comunista locale, obbediente agli ordini di Mosca, insofferente verso uno spirito così rivoluzionario. Viceversa, nella Sierra Maestra c’erano tutte le condizioni perché l’Ejercito Rebelde si rafforzasse man mano, grazie al sostegno dei campesinos e la protezione della natura. Non a caso, José Martí aveva scritto che chi controlla la Sierra Maestra, controlla l’Oriente, e che chi controlla l’Oriente controlla Cuba.
Tra questi ed altri pensieri, ci corichiamo al calare del sole, in una stanza spartana con due brande ed un bagno privo di acqua corrente. Abbiamo poca fame, ma molta sete. Fortunatamente, il rifugio, presidiato tutta la notte, ha un servizio bar. Tuttavia, nonostante la stanchezza accumulata, non è facile dormire tra il calore e la gola infiammata, le vesciche, la scomodità e le zanzare.
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Re: Andrea y su viaje en Oriente,zaino in spalla-(trekking al Pico Turquino)
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