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Messaggio Da mosquito Gio 24 Apr 2014 - 3:21

proveniente desde Granma:  study 
http://www.aserequebola.net/t4310-andrea-y-su-viaje-en-orientezaino-in-spalla-trekking-al-pico-turquino#33397

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5° giorno (mercoledì 24 luglio 2013 ): Las Cuevas – Santiago

Alle sei di mattina, dopo aver pagato il pernottamento – 5 CUC, la tariffa consueta per un favore o una commissione –, scendiamo lungo il margine della strada, sperando di fermare uno dei camiones diretti verso Santiago. Poiché non è ancora l’alba, segnaliamo la nostra posizione con una torcetta, e riusciamo a fermare un camión diretto a Chivirico, ossia a metà strada. Paghiamo 20 MN a testa al machacante, e troviamo un posto a sedere. Questa strada, che parte da Pilón, nella provincia di Granma, e arriva fino a Santiago, gode di un panorama eccezionale. A sinistra i fianchi verdeggianti delle montagne incombono su di essa, mentre a destra è a picco sul mare sottostante. Quanto a condizioni, è però una delle più brutte di tutta l’isola, essendo esposta alle intemperie del mare e degli uragani, e quasi del tutto trascurata. Mi limito ad accennare che tra Las Cuevas ed Uvero si percorre un ponte crollato, per cui la strada sprofonda e risale bruscamente come una V, evitando la parte della carreggiata che ha ceduto. Eppure è l’unica via che collega le località della costa meridionale, perciò procediamo con estrema lentezza nella direzione del sole che sorge, impiegando due ore per percorrere la cinquantina di chilometri che ci separa dal centro di Chivirico.

Questo è già un centro abitato più grande, alla cui stazione degli autobus confluiscono i contadini dei dintorni, i guajiros, diretti verso la città di Santiago per festeggiare il Carnaval. Troviamo quindi con facilità un automezzo per quella destinazione e partiamo poco dopo. Il machacante di turno è però particolarmente determinato a trarre giovamento dalla situazione, per cui il cassone è particolarmente affollato di uomini, donne, bambini e… animali. Alcuni, infatti, portano seco, in un sacchetto di plastica, un polletto vivo, con le zampe legate, e dai grugniti che si levano ad ogni brusca frenata, deduciamo che qualcuno è salito con un porcellino. Noi siamo seduti abbastanza vicini alla testa del veicolo, e dal finestrone anteriore, sopra la cabina, entra un po’ d’aria, per cui non stiamo malaccio, anche se il machacante si lamenta dei 20 MN che potrebbero trovare ancora posto in piedi, davanti al finestrone, riscuotendo la mia tacita e sardonica ammirazione per la sua vocazione imprenditoriale. In compenso, la strada va migliorando, man mano che ci avviciniamo alla città, per cui percorriamo questi 68 km nel giro di due ore.

Arriviamo a Santiago da nordovest e scendiamo presso la vecchia stazione ferroviaria, in Avenida Jesús Menéndez, una strada ampia e polverosa che corre lungo il porto. Abbiamo l’indirizzo di una casa privata, dove saremo ospitati, a modico prezzo, dalla madre di un’amica della mia fidanzata. Poiché siamo piuttosto stanchi, dopo aver annunciato telefonicamente il nostro arrivo, vi ci dirigiamo subito. La nostra pensionante vive a dieci minuti di distanza, nel vecchio rione di S. Tomás. Le strade sono animate da numerosi pedoni, ma vedono passare poche automobili, mentre più frequentemente sfrecciano le motociclette. Nonostante non brillino per rispetto del codice stradale, tutti indossano il casco, anche se non integrale, perché su questo la polizia non transige. Le modeste abitazioni e le vie sono addobbate in occasione del 26 Luglio con scritte, bandierine e slogan. Su un muro, un graffito recita: “Revolución, Dios te bendiga siempre” (Rivoluzione, Dio ti benedica sempre). Chiedendo informazioni, riusciamo a trovare la casa che cerchiamo, dove siamo subito accolti da una signora anziana, ma molto attiva.

Ci offre un batido al mango, e poi ci mostra le nostre stanze, collocate al piano di sopra. La camera e il bagno, che nulla ha da invidiare a quelli europei, fanno parte di un appartamento in via di ristrutturazione. Tutti i Cubani che hanno denaro da spendere, infatti, e non sono pochi, investono nel miglioramento e nell’ammodernamento delle abitazioni proprie e dei loro famigliari. L’ospitalità della signora, di cui godremo in questi giorni, sarà semplice, ma assolutamente squisita. Pasteggiamo con comida criolla, come d’uso nelle case cubane. Le porzioni sono decisamente abbondanti, e la nostra ospite, da brava massaia mediterranea, non esita a riempirci il piatto. Tra le altre cose, costatiamo con piacere la presenza di patate, al momento introvabili nei mercati ortofrutticoli della Capitale. Anche i manghi sono più piccoli, ma più buoni rispetto a quelli che si trovano all’Avana. La colazione è a base di omelette, latte, caffè e succo di frutta. Del resto, per sostenere questi climi c’è bisogno non solo di zuccheri e sali minerali, ma anche di molte proteine. A parte, la parentesi del Periodo Especial, il cibo a Cuba non è un problema, specialmente in campagna. Tuttavia, nella sovraffollata Avana, dove si accalcano due milioni di abitanti pur essendoci spazio per la metà, i rifornimenti alimentari sono difficoltosi, e le derrate più rare e costose.

A causa del caldo, aspettiamo il tardo pomeriggio prima di uscire. Le gambe ci dolgono ancora, e l’altitudine ineguale del centro storico non aiuta certo. Ci preme, nondimeno, trovare una cadeca (Casa de cambio), dove cambiare i nostri euro, prima dei tre giorni festivi che ci aspettano. Interpellando i passanti, procediamo dritti verso il centro, oltre il Teatro José Martí, fino a svoltare a destra nella Enramada, oggi Avenida José Saco. Rispetto a quattro anni fa, la città di Santiago è migliorata, dal punto di vista estetico. Le strade sono meno sporche rispetto all’Avana e molti edifici sono stati ristrutturati in parte o del tutto. Altri lavori di restauro tuttora fervono, volti a restituire l’antico splendore a lussuosi palazzi del centro storico, già un tempo alberghi o dimore neocoloniali. Sulla Enramada, che sale dal porto fino alla Plaza de Marte, tagliando in due il centro storico, si susseguono file di negozi e locali. La cadeca in questione è chiusa anticipatamente per fumigazione dei locali, ma sarà aperta nei prossimi giorni, nonostante la festività, il che risolve i nostri problemi.

Sbocchiamo in Plaza de Dolores e voltiamo indietro per Aguilera, verso il Parque Céspedes. Riconosco i locali frequentati nel nostro scorso viaggio, compreso il caffè Isabelica all’angolo. Ci lasciamo sulla destra il Palacio Provincial e sulla sinistra il Museo Bacardi, intitolato al patriota Emilio Bacardi y Moreau, di cui raccoglie le collezioni artistiche e naturalistiche. È facile essere patrioti e rivoluzionari, finché non si toccano i rapporti di proprietà. I suoi discendenti, infatti, non solo hanno lasciato il Paese in odio alla Rivoluzione, traslocando piantagioni e distillerie alle Bahamas, ma hanno finanziato il terrorismo anti-cubano compiuto dagli esuli di Miami. Ricordo il negro che lavorava come guida al Museo del Rón, Carlos, il quale facendoci assaggiare del buon rón añejo, affermava che «es el rón de Bacardi, no de Fidel», dimenticando che se fosse dipeso da don Bacardi, egli sarebbe ancora nelle piantagioni a tagliar canna da zucchero dall’alba al tramonto.

Il Parque Céspedes, al centro della città, è dominato dalla Cattedrale, che sorge su un piano rialzato, sul lato meridionale della piazza. Di fronte, lo storico edificio dell’ayuntamiento, oggi sede dell’assemblea municipale, dal cui balcone si affacciò Fidel Castro per il primo discorso alla nazione all’1 gennaio 1959, data di trionfo della Rivoluzione. In quell’occasione, l’Arcivescovo Enrique Pérez Serantes aveva spalancato le porte della Cattedrale, in segno d’accoglienza, così che il Santissimo restasse esposto di fronte al Líder Máximo. Sul lato orientale, di fianco alla Banca Nazionale, la casa del conquistador Diego Velázquez costituisce il più antico edificio dell’isola. Di fronte si ergono la storica Galería Oriente e, su un piano rialzato, l’Hotel Casa Granda. Gli alberi al centro della piazza offrono un po’ di fresco, poiché, nonostante siano le sei di pomeriggio, il termometro pubblico segna 35° C. All’agenzia di viaggi statale della Cubatur, posta all’angolo, tra la Cattedrale e l’Hotel, però, non ci è possibile ottenere né il programma del Carnaval, né l’orario della Messa solenne di S. Giacomo, che avrebbe dovuto tenersi il giorno successivo, secondo ogni evidenza. Al riguardo, l’impiegata, evidentemente del tutto digiuna d’istruzione religiosa, casca dalle nuvole. Perciò rientriamo a casa e ci corichiamo poco dopo cena, in modo di rifarci delle ore arretrate di sonno.


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Messaggio Da mosquito Ven 25 Apr 2014 - 5:08

6° giorno (giovedì 25 luglio): Santiago

Così, la mattina dopo, ci leviamo presto, al fine di avere informazioni sugli eventi della giornata. Arriviamo al Parque Céspedes appena in tempo per entrare in Cattedrale, per l’inizio della Messa. L’edificio, a cinque navate, era stato riammodernato nel 1922, in stile vagamente neoclassico. L’abside era ancora in via di restauro, per cui l’Altare Maggiore non era visibile. Spiccavano due altari laterali, dedicati l’uno alla Crocifissione, con la Madonna Addolorata e S. Giovanni Evangelista, e l’altro a S. Antonio Maria Claret, già vescovo di Santiago. In fondo, alla sinistra dell’Altare, non può mancare la Vergine della Carità del Cobre. Tutte queste statue sono riccamente vestite e adornate, secondo l’uso spagnolo. Nella navata, dove ci troviamo noi, su un palanchino adornato di rose rosse e dallo stemma del Santo, svetta S. Giacomo Apostolo, vestito di un saio marrone con un cordone e una mantellina, adorna di due capesante, entrambi verdi; portava al collo una croce di S. Giacomo, e impugnava un Vangelo nella destra e un bastone da pellegrino nella sinistra; ai lati, garrivano la bandiera nazionale cubana e la bandiera vaticana.

I banchi sono pieni di gente di varia origine etnica e sociale. Il grande calore (35° C già in mattinata) fa sì che persino molte beghine fossero in canottiera, nonostante le porte spalancate e i ventilatori. La Messa inizia con l’ingresso di S.E. Mons. Dionisio García Ibañez, Arcivescovo di Santiago, affiancato da un altro vescovo (forse un suo ausiliario o suffraganeo oppure l’ospite uruguayano Mons. Luis del Castillo) e una decina di sacerdoti e diaconi in casula rossa e cotta bianca, che lo assistevano nel rito. Un coro misto, con tuniche bianche e sciarpe azzurre, ha accompagnato la funzione con canti in spagnolo. Al termine della Messa pontificale, ha fatto seguito una breve processione con la statua del Santo, con stemma e bandiere, fino al sagrato, che domina il centrale Parque Céspedes. Qui, l’arcivescovo ha benedetto la città e pregato per i governanti. Al termine della Messa, il Santo è tornato al suo posto nella Cattedrale, e il popolo ha intonato l’inno nazionale cubano, la Bayamesa.

Pur apprezzando molto la liturgia, ci siamo trovati in forte contrasto con l’omelia di Mons. García,  e non tanto per la sua lunghezza, o per la sua disapprovazione verso i festeggiamenti paganeggianti del Carnaval, bensì per le sue affermazioni politiche controrivoluzionarie. In particolare, ha affermato che «Il socialismo può anche essere una cosa buona, per i suoi effetti sociali, ma i cattolici non dovrebbero avervi a che fare» e ha denunciato il rischio di strumentalizzazione della Chiesa da parte del governo, facendo l’esempio della visita del Papa del marzo 2012. Da cattolico, sono rimasto disgustato dall’ipocrisia di fondo di questo discorso che mostra la volontà di condannare il socialismo cubano, senza la franchezza di attaccarlo direttamente. Inoltre, ritengo che questo atteggiamento sia dannoso per la causa del cattolicesimo a Cuba, dal momento che impedisce un impegno sociale e politico costruttivo, e quindi l’evangelizzazione della società.

Dopo la Messa, andiamo all’ufficio turistico, dove riceviamo una mappa della città, e ci viene detto che i festeggiamenti del Carnaval avranno luogo sui viali Martí, Garzón e Trocha, a oriente del centro storico, e che termineranno anticipatamente a mezzanotte, per motivi di sicurezza, relativi alla celebrazione del 26 luglio. Poi, mi reco in una bottega di barbiere adiacente alla piazza, dove mi faccio dare una spuntatina a barba e capelli, in modo da cambiare l’aspetto da barbudo della Sierra, con un volto più presentabile. Baffi e barba non sono affatto in uso tra i giovani cubani, per cui contribuiscono inevitabilmente a contraddistinguermi come uno straniero. In compenso, il taglio maschile attualmente di moda è quello cortissimo ai lati e alto sopra, come i soldatini della Wehrmacht. La barbiera se la cava, ma non ha la mano del mio barbiere di fiducia. In compenso, poiché sono straniero, esige la bellezza di 100 MN.

Nel tardo pomeriggio, decidiamo di fare un po’ di turismo, anche se avevo già visitato in passato le principali attrazioni della città, come il complesso del Moncada, il Museo della Lotta Clandestina, il Museo Bacardí e il Museo del Rón. A poca distanza dalla nostra abitazione, sorgono la casa dei fratelli José e Antonio Maceo e la casa del Gen. Guillermo Moncada, eroi delle guerre d’indipendenza, così come quella dei fratelli País, eroi della Rivoluzione. Tuttavia, essendo giorno festivo, sono tutte chiuse, e non è possibile visitarle. Cambiamo il nostro denaro alla cadeca, e poi andiamo a bere un caffè e una birra all’Isabelica. Il locale, all’angolo tra Aguilera e Plaza de Dolores, è ispirato nel nome e nell’arredamento alla Isabelica, la tenuta del piantatore francese Víctor Constantin, situata a una trentina di km da Santiago, presso la Gran Piedra. Infatti, dopo la Rivoluzione haitiana del 1791, molti francesi, con i loro schiavi al seguito, erano fuggiti a Cuba, specie nell’Oriente, introducendovi la coltivazione del caffè. Neanche a dirlo, la specialità di questo locale è proprio il caffè.

Dal momento che il mal di gola contratto sulla Sierra è progredito in un fastidioso raffreddore con accessi di tosse, andiamo in farmacia a cercare uno sciroppo. A Cuba, oltre ad una buona industria farmacologica, è diffusa la medicina naturale. Qui non hanno lo sciroppo d’aloe, però, e devo accontentarmi dello sciroppo alla cipolla, la cui efficacia è inversamente proporzionale alla bontà del suo sapore. Lo acquistiamo in Plaza de Marte, a fianco della sede provinciale del PCC. In quest’ampia piazza, tra i vari monumenti indipendentisti, svetta una colonna sormontata da uno dei simboli della Repubblica di Cuba: il fascio repubblicano coi colori nazionali, coronato da un berretto frigio rosso con la stella solitaria.

Dopo cena, per le nove di sera, usciamo per partecipare al Carnaval, nonostante la nostra padrona di casa, in quanto cristiana, disapprovi queste manifestazioni. Se ne deduce che è protestante, dato che i cattolici sono in genere tolleranti di quegli eccessi paganeggianti connaturati alla devozione popolare e alle feste patronali. Raggiungiamo il Paseo de Martí e seguiamo un folto corteo di negri d’ogni sesso ed età, in parte mascherati, che al ritmo di tamburi ed altre percussioni si dirigono verso l’Avenida Garzón. All’altezza del Moncada ci distacchiamo da questa scena dionisiaca, per svolgere una ricognizione preliminare dei luoghi, dove esattamente sessant’anni fa, un pugno di giovani patrioti cubani aveva preso d’assalto questa caserma e gli edifici circostanti, con l’obiettivo di dare luogo ad una sollevazione generale contro la dittatura di Fulgencio Batista.

Lungo l’Avenida de Libertadores, scandita dai busti dei patrioti ottocenteschi, alla nostra sinistra si estendono le mura gialle del Cuartel “Guillermo Moncada”, ora simbolicamente trasformata in complesso scolastico. Più oltre, si staglia la bianca facciata del Palacio de Justicia, in stile funzionalista. Alla nostra destra, si susseguono l’ospedale oncologico Conrado Benítez, l’ex-ospedale militare Saturnino Lora, ora adibito a complesso museale, e la fontana-monumento ad Abel Santamaría Cuadrado, preso prigioniero, torturato e assassinato dai militari dopo la sconfitta, come vari altri combattenti. Svoltiamo a sinistra, fino a passare presso alla Posta n° 3, l’ingresso da cui entrarono i rivoluzionari. Le mura di quest’ala dell’edificio, che ora ospita un museo, hanno conservato i fori delle pallottole sparate allora. Da qui si estende un’ampia spianata, già in uso come poligono, ora occupata da migliaia di sedie e da un palco.

Da qui, scendiamo Avenida Moncada fino ad affacciarci su Avenida Garzón, dove stava per avvenire la sfilata del Carnaval. Da un gradino rialzato, sono in ottima posizione per fotografare il corteo, mentre la mia fidanzata provvede a rifornirmi di birra. Per strada la si vende alla spina, al secchiello, per cifre ridicole (5-10 MN). Non è eccezionale, ma assolve al suo compito di tenere allegro il popolo. Probabilmente è la Hatuey, prodotta a Santiago, così come la Tínima è prodotta a Camagüey. Tuttavia, la maggioranza della birra cubana è prodotta dalla fabbrica Bucanero a Holguín: sia le popolari Mayabe (4°) e Cacique (4,2°), rispettivamente a 18 e 20 MN alla lattina, sia le turistiche Cristal (4,5°) e Bucanero (5,4°), in vendita da 1 a 2 CUC. Sono tutte bionde leggere, piuttosto gasate, addolcite dall’aggiunta di zucchero di canna. All’Avana, poi c’è la Taberna Murallas, nella Plaza Vieja, che produce una discreta birra artigianale.

Il corteo vede sfilare i vari corpi di ballo di Santiago e dintorni: i danzatori di conga, con i sombreros e gli ampi mantelli; i danzatori di salsa; gli uomini-carrozza, con i loro elaborati abiti a forma di barroccio; draghi cinesi; carri che non hanno nulla da invidiare a quelli di Rio de Janeiro; allegorie e simboli patriottici; ma soprattutto numerosissime ballerine, succintamente vestite, e non di rado agghindate da cameriere o da infermiere o da scolarette, ecc. La bellezza dei loro corpi e la sensualità dei loro movimenti non possono essere descritti adeguatamente dalla mia penna. Tra coloro che sfilano, non c’è un bianco che sia uno: difficilmente chi non ha sangue africano nelle vene può ballare freneticamente tutta la notte. La sfilata termina intorno alla mezzanotte, in accordo con le direttive dall’alto.


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Messaggio Da mosquito Mar 29 Apr 2014 - 3:00

7° giorno (venerdì 26 luglio): Santiago

A questo punto, ci basta percorrere pochi metri, per essere in posizione, di fronte alla Posta n° 3, sperando di poter entrare, o almeno assistere da fuori. Nonostante mancassero cinque ore all’inizio della cerimonia, c’era già un discreto affollamento sul muretto che delimita, dall’altra parte della strada, una serie di villette, tutte uguali. Erano state costruite insieme alla caserma, per ospitare gli ufficiali e le loro famiglie. Ora costituivano un punto privilegiato per gli spettatori. Non mancava qualche raro straniero, simpatizzante per la Rivoluzione come noi, o semplicemente curioso, dato che molti si trovavano in città per il Carnaval, ma la stragrande maggioranza erano cubani, che aspettavano di celebrare la loro festa nazionale. Storicamente, infatti, la popolazione cubana ha sempre assistito in massa al discorso del Presidente in occasione del 26 Luglio, e questa festa resta particolarmente sentita. Poco distante, una vecchietta, seduta in veranda, tiene un comizio ai propri cari, sui meriti della Rivoluzione. Bussiamo ad una casa per chiedere una tazza di caffè per tenerci svegli, determinati a vegliare qui finché non si palesi la possibilità di entrare.

Aspettiamo pazientemente, mentre fervono i preparativi della cerimonia. Alcuni poliziotti e militari stanno già presidiando il perimetro esterno e gli ingressi. In queste occasioni, le misure di sicurezza sono imponenti: per la visita del Papa, ad esempio, tutti gli edifici alti nel raggio di 1 km erano stati presidiati, mentre gli affittacamere erano stati temporaneamente chiusi, in modo da controllare più rigidamente la presenza di stranieri. Ad un certo punto, intorno alle tre, un poliziotto ci invita a sfollare, comunicando che, per ragioni di sicurezza, le vie prospicienti all’ingresso dovevano essere sgombrate. Mi viene ironicamente da pensare che, lungi dal dover costringere chicchessia ad assistere alla cerimonia, come potrebbe sostenere qualche maccartista fuori tempo massimo, si è dovuto piuttosto intervenire per impedire una partecipazione massiccia della cittadinanza, eccezion fatta per i circa diecimila delegati del Partito e delle associazioni provenienti da tutta l’isola, selezionati uno ad uno per merito (o per parentela). Obbediamo all’ordine, abbandonando la via, mentre intanto vediamo arrivare a drappelli i delegati, appena scesi dagli autobus.

Schiviamo come la peste gli italioti che cercano di attaccare bottone, e ci tocca assistere pure a stranieri (probabilmente anche loro compatrioti, nostro malgrado) che recriminano con un poliziotto accusando i comunisti di essere elitisti. A mio umile parere, premesso che il PCC fa benissimo ad essere gerarchico ed elitario, una notte in guardiola avrebbe potuto insegnare loro un po’ d’educazione. Questo non toglie che siamo rimasti amareggiati, poiché non era mai successo che il popolo fosse tenuto fuori da una cerimonia che è sempre appartenuta all’intera nazione cubana. Forse se fossimo rimasti appena fuori dall’area riservata, avremmo potuto vedere qualcosa, ma in quel momento, prevale lo scoramento. Anche i nostri contatti all’interno dell’organizzazione dell’evento tacciono, evidentemente indaffarati altrimenti.

In generale, la scarsa trasparenza relativa all’organizzazione dell’evento testimonia un’effettiva tendenza da parte dell’élite all’autoreferenzialità e alla paranoia securitaria, frutti avvelenati di mezzo secolo di assedio e terrorismo statunitense. Solo il martedì successivo, i media venezuelani hanno diffuso la notizia di un complotto per assassinare il Presidente venezuelano Nicolás Maduro, in cui sarebbero coinvolti l’ex-Presidente colombiano Alvaro Uribe, il golpista honduregno Roberto Micheletti e il terrorista della CIA cubano-venezuelano Luis Posada Carriles. L’assassinio sarebbe dovuto avvenire il 24 luglio e, infatti, a quanto ci assicurano fonti riservate, Maduro sarebbe arrivato a Santiago alle cinque, appena prima dell’inizio della cerimonia, senza che la sua presenza fosse stata annunciata dai media cubani. Guardando quindi in retrospettiva, le misure del Ministero dell’Interno, che ci erano parse esagerate, sono state pienamente giustificate dalle circostanze eccezionali.

Allora però non potevamo saperlo, per cui alla fine ci risolviamo di svegliare alle cinque e venti di mattina, con mille scuse, la nostra ospite, e andiamo a dormire. Ci alziamo solo per pranzo, per poi riposare ancora, approfittando della giornata libera. Nel tardo pomeriggio usciamo a fare un giro, né può mancare una sosta all’Isabelica, discutendo senza pregiudizi dirittoumanisti o veterocomunisti degli effetti negativi della mentalità da assedio nello Stato cubano, dall’autocensura dei giornalisti fino alle restrizioni alla diffusione d’internet. Presso l’ufficio turistico ci informiamo riguardo alla fortezza del Morro, presso la città, e veniamo a sapere che è aperto sia oggi che domani, e che al tramonto ha luogo un cañonazo, ossia lo sparo cerimoniale di un colpo di cannone, simile a quello della fortezza della Cabaña all’Avana, ma in abiti mambí. All’ora di cena, seguiamo con attenzione la replica della cerimonia del 26 luglio, trasmessa durante il notiziario.

Come previsto, alle cinque e un quarto della mattina, ora in cui era cominciato l’attacco, le celebrazioni sono state aperte dall’assalto simbolico da parte dei giovani Pionieri in divisa scolastica, armati di enormi matite (in riferimento emblematico al motto martíano “Essere colti per essere liberi”). I ragazzi hanno chiamato uno ad uno i Caduti del 26 luglio, ogni volta rispondendo “Presente” e levando il braccio destro, matita in pugno (mi raccomando, non fatelo sapere agli antifa nostrani che inneggiano a Cuba!).

Alle sette, poi, hanno avuto inizio i discorsi dei vari Presidenti presenti sul palco. A fianco del Presidente cubano Raúl Castro, in divisa da comandante delle Forze Armate Rivoluzionarie, erano presenti, infatti, anche il già citato Maduro – con indosso la giacca della nazionale olimpica, resa famosa dal suo predecessore – e il cocalero Evo Morales, Presidente della Bolivia, con una maglia con motivi indio. Seguivano, per l’Uruguay, il tupamaro José Mujica – per una volta vestito bene, in guayabera (l’equivalente cubano dell’abito), con le scarpe pulite, e con la moglie a fianco –, poi il Presidente sandinista del Nicaragua Daniel Ortega, anche lui con guayabera e consorte, il Cancelliere dell’Ecuador Ricardo Patiño, delfino di Correa, e, infine, gli alti rappresentanti di Dominica ed Antigua e Barbuda, minuscoli Stati insulari, aderenti all’ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Dietro al palco giganteggiavano le figure dei due grandi padrini della manifestazione, assenti nella carne ma presenti nello spirito: Hugo Chávez e Fidel Castro.

Raúl non ha parlato per primo, quasi a rimarcare la dimensione internazionale dell’evento, ed è stato molto sintetico, diversamente dai leggendari discorsi fluviali di suo fratello. È stato comunque letto un messaggio scritto da Fidel. In generale, gli oratori hanno sottolineato il primato temporale e morale di Cuba nella lotta per la sovranità nazionale e per la giustizia sociale tra le nazioni latinoamericane, tracciando una continuità ideale tra il Movimento 26 Luglio e lo sforzo politico dell’ALBA verso l’integrazione continentale e la liberazione dall’imperialismo straniero, in particolare statunitense. Non è mancato neanche l’omaggio postumo a Chávez. Ad esempio, Morales ha espresso il grande debito morale del proprio popolo verso il sostegno ricevuto da Cuba e Venezuela. Dopo i discorsi, gli ospiti internazionali hanno visitato il museo, guidati da Raúl in persona, che ha ripercorso gli eventi a cui egli aveva preso parte sessant’anni prima. Sono sicuro che Ortega e Mujica, anche loro con un passato da guerriglieri, avranno apprezzato la lezione tattica. Per inciso, il gruppo comandato da Raúl aveva conquistato l’obiettivo assegnatogli, ossia il Palacio de Justicia.

Infine, si sono spostati al Cimitero monumentale di S. Ifigenia, che anche noi avevamo visitato quattro anni prima, dove si trova il mausoleo dei caduti del 26 Luglio. Qui i Presidenti hanno presenziato al tradizionale cambio della guardia presso il Mausoleo di José Martí e alla deposizione di una corona di fiori, seguita dall’inno nazionale, la Bayamesa. Il notiziario ha poi mostrato come celebrazioni di portata minore ma nello stesso spirito ci siano state nel resto del Paese e del mondo: dal saluto inviato dalla Presidenta argentina Cristina Fernández ai festeggiamenti dei volontari cubani, all’opera ad Haiti. Abbiamo potuto quindi concludere la nostra giornata, ma è stato un pallido sostituto.


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Messaggio Da mosquito Sab 3 Mag 2014 - 4:44

8° giorno (sabato 27 luglio): Santiago

La mattina, di buon ora ma non troppo, ci dirigiamo alla stazione degli autobus, in modo da informarci in anticipo riguardo ai mezzi per tornare alla Capitale. Incamminandoci verso nord, sbuchiamo sul Paseo de Martí, un ampio viale, occupato dalle bancarelle del Carnaval, dove, nonostante l’ora, numerosi Cubani, perlopiù negri, sono già (o ancora) intenti a fare festa, mangiando e bevendo birra. Proseguiamo fino all’incrocio con Avenida de Libertadores, presso l’estremità settentrionale del Cuartel Moncada, e imbocchiamo questa, in direzione della periferia. Oltrepassiamo la stazione degli autobus provinciali, e raggiungiamo infine quella da dove partono le tratte nazionali, in genere verso l’Avana. Ascoltiamo le offerte e le proposte di vari machacantes, prima di accordarci con uno di loro, per 12 CUC a testa. Pattuiamo di trovarci il giorno seguente alle sette, sotto gli alberi, dalla parte opposta della strada.

Là dietro, si estende la vasta Plaza de la Revolución di Santiago. Di fronte ad essa si staglia un’ampia tribuna di pietra, su cui sorge il monumento equestre al Generale Antonio Maceo, affiancato da ventitré enormi lastre d’acciaio, simboleggianti i machete dei mambises. Dal lato opposto, su un edificio, ad imitazione dei ritratti del Che e di Camilo situati in Plaza de la Revolución all’Avana, campeggia il profilo in rilievo del Comandante Juan Almeida Bosque. A fianco, la citazione «¡Aquí se rinde nadie!» (“Qui non si arrende nessuno!”), con la quale egli rispose agli inviti ad arrendersi da parte delle forze governative, durante l’imboscata di Alegría del Pío, il 2 dicembre 1956, in cui i ribelli sbarcati dal “Granma” furono sconfitti e dispersi. La storia tramanda anche che, in quell’occasione, a dar maggior forza alla sua perentoria affermazione, Almeida vi aggiunse un «coño!» (“cazzo!”), ma la storiografia ufficiale preferisce glissare su questo richiamo al Gen. Cambronne.

Torniamo verso il centro. Davanti a noi, un cartellone ritrae il giovane Fidel in divisa verde-oliva da guerrigliero e la città di Santiago, con la sua baia, accompagnate dal motto proprio della città: «Rebelde ayer, hospitalaría hoy, heroica siempre!» (“Ribelle ieri, ospitale oggi, eroica sempre”). Visto il calore, sempre opprimente, ci fermiamo a bere qualcosa in una cafetería di fianco al Palacio de Justicia. Ordino una malta, apprezzando questa bevanda gasata analcolica, molto dolce, a base di malto e luppolo. Ogni fabbrica ha la sua: a Santiago, si trova quella Hatuey, servita in bottiglie di vetro, e la Tínima, a Camagüey, ma solitamente si trovano le lattine della Bucanero. Rientriamo per pranzare e riposarci, con l’intenzione poi di dirigerci verso il Parque Céspedes e contrattare un taxi per farci portare al Morro, prevedendo di spendere al massimo 20 CUC tra andata e ritorno. Tuttavia, la signora ci ha preceduti, dicendo di aver trovato un passaggio per noi.

Si tratta di un suo vicino, da cui ci accompagna. Lo troviamo seduto sulla soglia di casa, in compagnia di amici. Uno di loro ci offre un goccio di birra. La signora rifiuta, in ragione della sua fede cristiana, e all’obiezione secondo cui anche i cristiani bevono birra e che pure Gesù Cristo beveva vino, precisa di essere non cattolica, bensì pentecostale. Io, invece, non mi faccio problemi ad accettare, né a fare due chiacchiere. Ci accordiamo quindi per le 16.30, al prezzo di 6-7 CUC. All’ora convenuta, quindi, ci presentiamo dal nostro tassista. Indossato il casco, mi accomodo sul sidecar, mentre la mia fidanzata si siede sul sellino posteriore della motocicletta. Parte e sfreccia attraverso le strette vie del centro storico, salendo fino al Parque e discendendo verso la Trocha. Passiamo a fianco del monumento a Chibás, e poi fuori dalla città, verso sud. In un quarto d’ora, lasciandoci dietro una caserma delle FAR, raggiungiamo il colle a picco sul mare, dove si trova la nostra meta. Lei si procura una bruciatura alla caviglia contro la marmitta rovente, smontando dalla motocicletta, ma non è nulla di grave. Una strada pedonale lastricata si snoda presso al faro e alle casette dei guardiani, fino al Morro.

La fortezza spagnola di San Pedro della Roca, detta del Morro, domina l’ingresso alla baia di Santiago, con i suoi numerosi bastioni, che scendono fin sul mare, irti di bocche da fuoco. Dalla parte della terra, è protetta da un rivellino, un fossato e un ponte levatoio, i quali possono essere presi d’infilata dagli spalti più alti. Fino alla fine dell’Ottocento, essa costituì quindi una piazzaforte formidabile per difendere la seconda città dell’isola, da incursioni di pirati o attacchi da parte di potenze nemiche. Oggi resta in ottimo stato ed è visitabile, sempre con la solita rilevante differenza di prezzo tra turisti (4 CUC) e indigeni (1 MN), anche per quanto riguarda il permesso di scattare fotografie, che in genere è sempre a parte (10 CUC o 20 MN). In questi casi, il permesso di residenza temporale, anche altrui, è indubbiamente utile. Visitiamo le sale espositive, la polveriera, la cappella, situate nell’opera principale, e poi i vari spalti e bastioni, dall’alto verso il basso. La vista di cui si gode, sia sul mare, sia sulla baia, è notevole. Le vecchie pietre del forte ospitano gechi e iguane di varie dimensioni, che si crogiolano al sole calante. Una giovane ragazza si fa fotografare per la quinceañera. Quest’usanza cubana è molto sentita, tanto che si spendono per essa cifre consistenti. Essa prevede che ad ogni ragazza, in occasione dei quindici anni, si dia una festa e le sia scattato un vero e proprio book fotografico, sia in abito da sera sia in abbigliamento più moderno.

È già tardi, a quanto pare, dato che le prigioni del forte, che hanno ospitato numerosi patrioti cubani, da Maceo a Masó a Bacardi, e i bastioni più bassi, sono già chiusi. Però è anche presto per la cerimonia del Cañonazo, per cui ci tocca attendere ancora un’ora. L’attesa è ripagata, quando al rullo di tamburi, sette figuranti, con la tipica divisa mambí (bianca con il cappello di paglia e il machete alla cintola), marciano dal villaggio verso il forte, disposti a freccia. Quattro di loro si misero sull’attenti, presso al cannone, mentre gli altri tre salgono sullo spalto più alto, dove noi spettatori ci troviamo, per ammainare la bandiera. Compiuto ciò, l’altro drappello, agli ordini della capitana, carica il cannone. L’operazione, da me filmata, dura grossomodo sette minuti, finché viene dato fuoco alla miccia e il cannone tuona, mandando la palla a infrangere le onde con un’ampia parabola, mentre risuona il grido: «¡Viva Cuba Libre!».

Si sono fatte ormai le 19.20, e il sole tramonta dietro le mura del forte, mentre noi ritorniamo dal nostro moto-tassista, il quale ci riporta a casa, venendo ricompensato con 10 CUC. La signora, però, si preoccupa per la bruciatura riportata e insiste per condurci da una sua amica medico, che vive nello stesso isolato. La casa è quella del Presidente del locale CDR (Comitati di Difesa della Rivoluzione), ossia di uno dei quasi 135.000 comitati civici, in cui è organizzata la stragrande maggioranza della popolazione cubana adulta. La gentile vicina provvede a disinfettare e fasciare la lieve ustione e a raccomandare l’uso di una pomata. Rifiuta inoltre di accettare alcun compenso. Nel breve tragitto verso casa, una donna dall’aspetto volgare cerca di attaccare bottone con me, apostrofandomi in maniera grossolana, nonostante fossi visibilmente accompagnato. La signora provvede a cacciarla via con disprezzo, confermandoci trattarsi di una nota jinetera, ossia prostituta. Qui a Cuba, l’adescamento comporta l’arresto e, alla seconda occasione, il carcere.


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