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«Per uno scrittore a Cuba ora c’è più libertà, ma non economica»
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«Per uno scrittore a Cuba ora c’è più libertà, ma non economica»
Intervista a Leonardo Padura Fuentes. Dal festival della Letteratura l'autore de "L'uomo che amava i cani" parla del nuovo romanzo e non solo
Se c’è uno scrittore cubano capace di raccontare le complessità di Cuba senza fare ricorso a stereotipi o eccessi retorici, questo scrittore è Leonardo Padura Fuentes. In questi giorni è a Mantova («encantadora, como siempre») per il Festival della Letteratura, domani parteciperà a un incontro con Carlo Lucarelli, domenica parlerà dello stato della letteratura e dell’editoria a l’Havana.
«Ora il problema maggiore da noi non è la censura», dice, «ma la situazione economica che ci portiamo dietro dagli anni ’90. La quantità di titoli è diminuita molto, ed escono soprattutto libri di politica e letteratura per bambini. Gli editori sono espressioni dello Stato e del governo, è vero, e pubblicano libri che rispondono ai loro interessi. Ma c’è più spazio per una letteratura critica rispetto a 30 o 40 anni fa. Ora c’è più libertà, non totale, ma maggiore. I miei romanzi sono stati tutti pubblicati a Cuba, e non è mai stata cambiata neanche una parola. Io stesso pensavo che alcuni, come L’uomo che amava i cani, non sarebbero usciti, e invece mi sbagliavo. Ma c’è dell’altro».
Ovvero?
Il fattore economico. Uno scrittore può impiegare quattro o cinque anni a scrivere un romanzo per cui gli verranno pagati 250 dollari di diritti. È impossibile. Così tutti devono avere un altro lavoro. Essere uno scrittore professionista a Cuba è molto difficile. Il carattere così peculiare della realtà cubana, poi, fa sì che soprattutto negli ultimi anni se ne sia scritto moltissimo. Col risultato che la nostra letteratura non ha un carattere universale, ma locale. E questo filone – la gente che scappa, le donne che sposano un italiano e si fanno portar via – si è esaurito.
L’uomo che amava i cani, il suo ultimo romanzo uscito in Italia nel 2010, è un’opera monumentale, in cui si trova tutto ciò che si dovrebbe chiedere alla letteratura: storia, politica, amore, dolore, morte. Come si ricomincia a scrivere, dopo un libro così?
Ogni volta che scrivo un romanzo è il miglior romanzo che sono capace di scrivere in quel momento. Poi alcuni vengono meglio di altri, la letteratura è così, un po’ misteriosa, a volte delle buone storie finiscono per essere scritte male. Dopo un libro che ha avuto il successo di L’uomo che amava i cani era fondamentale non perdere l’ambizione. E il mio nuovo romanzo, Herejes (“Eretici”), appena uscito in Spagna, è un romanzo molto ambizioso. Attraversa quattro secoli di storia occidentale, inizia nella Amsterdam di Rembrandt e finisce con una ragazza cubana appartenente a una tribù urbana, una emo. In tutto questo ho messo anche Conde. Quanto al mio metodo, finito un romanzo cerco di scrivere altro. Adesso sto lavorando insieme a mia moglie a una sceneggiatura per una possibile serie televisiva su Conde, una produzione ispano-tedesca. Hemingway diceva che uno scrittore è come un pozzo: se prendi acqua tutti i giorni si secca, bisogna dargli il tempo perché il livello risalga. E siccome io non sono capace di passare questo tempo su una spiaggia, lo passo lavorando a qualcos’altro.
I suoi libri con protagonista il detective Mario Conde sono quelli che l’hanno resa popolare. Pensa anche lei, come molti autori occidentali, che oggi il noir sia il genere capace di raccontare meglio il peggio della società?
Non dirò che il noir è migliore degli altri generi, ma è vero che ha una grande capacità narrativa. Se scrivi un romanzo poliziesco, devi raccontare una storia. Una storia che abbia a che fare coi lati più oscuri della società, il crimine, la corruzione, l’abuso di potere. Parecchi autori contemporanei, italiani, americani, latinoamericani, scrivono molto di se stessi. Con un noir si è costretti inevitabilmente a scrivere degli altri. E questo è un vantaggio.
La sua analisi sulla realtà cubana è molto lucida ed equilibrata. Da noi siamo abituati a sentirci dire che Cuba è l’inferno, oppure il paradiso. Cosa c’è che la convince meno nell’idea di Cuba che si fanno solitamente gli occidentali?
Credo che nel mondo occidentale su Cuba ci siano due posizioni particolarmente sbagliate. Quella di chi difende assolutamente il sistema cubano e quella di chi lo attacca assolutamente. Per la mia esperienza posso parlare di cose terribili e di cose meravigliose. Nessun paese è monolitico, men che meno un paese come Cuba. Fortunatamente da noi non sono mai successe cose orrende come in Siria – e lì sì che è un inferno. Certo, ci sono stati momenti di repressione contro scrittori, omosessuali, religiosi. Ma ora Cuba sta cambiando, in meglio. Magari lentamente, e le misure economiche non sono radicali come dovrebbero. Però il cambiamento esiste. Per capire Cuba non bisogna paragonarla alla Siria, ma neanche alla Norvegia. Voi italiani, così come i greci o gli spagnoli, sapete che le difficoltà economiche possono portare molta tensione e molta ansia. La cosa più importante è che le persone non si lascino vincere dalle avversità, ma che in questi momenti tirino fuori le loro capacità migliori, la loro intelligenza e la loro solidarietà verso gli altri.
europaquotidiano.it
Se c’è uno scrittore cubano capace di raccontare le complessità di Cuba senza fare ricorso a stereotipi o eccessi retorici, questo scrittore è Leonardo Padura Fuentes. In questi giorni è a Mantova («encantadora, como siempre») per il Festival della Letteratura, domani parteciperà a un incontro con Carlo Lucarelli, domenica parlerà dello stato della letteratura e dell’editoria a l’Havana.
«Ora il problema maggiore da noi non è la censura», dice, «ma la situazione economica che ci portiamo dietro dagli anni ’90. La quantità di titoli è diminuita molto, ed escono soprattutto libri di politica e letteratura per bambini. Gli editori sono espressioni dello Stato e del governo, è vero, e pubblicano libri che rispondono ai loro interessi. Ma c’è più spazio per una letteratura critica rispetto a 30 o 40 anni fa. Ora c’è più libertà, non totale, ma maggiore. I miei romanzi sono stati tutti pubblicati a Cuba, e non è mai stata cambiata neanche una parola. Io stesso pensavo che alcuni, come L’uomo che amava i cani, non sarebbero usciti, e invece mi sbagliavo. Ma c’è dell’altro».
Ovvero?
Il fattore economico. Uno scrittore può impiegare quattro o cinque anni a scrivere un romanzo per cui gli verranno pagati 250 dollari di diritti. È impossibile. Così tutti devono avere un altro lavoro. Essere uno scrittore professionista a Cuba è molto difficile. Il carattere così peculiare della realtà cubana, poi, fa sì che soprattutto negli ultimi anni se ne sia scritto moltissimo. Col risultato che la nostra letteratura non ha un carattere universale, ma locale. E questo filone – la gente che scappa, le donne che sposano un italiano e si fanno portar via – si è esaurito.
L’uomo che amava i cani, il suo ultimo romanzo uscito in Italia nel 2010, è un’opera monumentale, in cui si trova tutto ciò che si dovrebbe chiedere alla letteratura: storia, politica, amore, dolore, morte. Come si ricomincia a scrivere, dopo un libro così?
Ogni volta che scrivo un romanzo è il miglior romanzo che sono capace di scrivere in quel momento. Poi alcuni vengono meglio di altri, la letteratura è così, un po’ misteriosa, a volte delle buone storie finiscono per essere scritte male. Dopo un libro che ha avuto il successo di L’uomo che amava i cani era fondamentale non perdere l’ambizione. E il mio nuovo romanzo, Herejes (“Eretici”), appena uscito in Spagna, è un romanzo molto ambizioso. Attraversa quattro secoli di storia occidentale, inizia nella Amsterdam di Rembrandt e finisce con una ragazza cubana appartenente a una tribù urbana, una emo. In tutto questo ho messo anche Conde. Quanto al mio metodo, finito un romanzo cerco di scrivere altro. Adesso sto lavorando insieme a mia moglie a una sceneggiatura per una possibile serie televisiva su Conde, una produzione ispano-tedesca. Hemingway diceva che uno scrittore è come un pozzo: se prendi acqua tutti i giorni si secca, bisogna dargli il tempo perché il livello risalga. E siccome io non sono capace di passare questo tempo su una spiaggia, lo passo lavorando a qualcos’altro.
I suoi libri con protagonista il detective Mario Conde sono quelli che l’hanno resa popolare. Pensa anche lei, come molti autori occidentali, che oggi il noir sia il genere capace di raccontare meglio il peggio della società?
Non dirò che il noir è migliore degli altri generi, ma è vero che ha una grande capacità narrativa. Se scrivi un romanzo poliziesco, devi raccontare una storia. Una storia che abbia a che fare coi lati più oscuri della società, il crimine, la corruzione, l’abuso di potere. Parecchi autori contemporanei, italiani, americani, latinoamericani, scrivono molto di se stessi. Con un noir si è costretti inevitabilmente a scrivere degli altri. E questo è un vantaggio.
La sua analisi sulla realtà cubana è molto lucida ed equilibrata. Da noi siamo abituati a sentirci dire che Cuba è l’inferno, oppure il paradiso. Cosa c’è che la convince meno nell’idea di Cuba che si fanno solitamente gli occidentali?
Credo che nel mondo occidentale su Cuba ci siano due posizioni particolarmente sbagliate. Quella di chi difende assolutamente il sistema cubano e quella di chi lo attacca assolutamente. Per la mia esperienza posso parlare di cose terribili e di cose meravigliose. Nessun paese è monolitico, men che meno un paese come Cuba. Fortunatamente da noi non sono mai successe cose orrende come in Siria – e lì sì che è un inferno. Certo, ci sono stati momenti di repressione contro scrittori, omosessuali, religiosi. Ma ora Cuba sta cambiando, in meglio. Magari lentamente, e le misure economiche non sono radicali come dovrebbero. Però il cambiamento esiste. Per capire Cuba non bisogna paragonarla alla Siria, ma neanche alla Norvegia. Voi italiani, così come i greci o gli spagnoli, sapete che le difficoltà economiche possono portare molta tensione e molta ansia. La cosa più importante è che le persone non si lascino vincere dalle avversità, ma che in questi momenti tirino fuori le loro capacità migliori, la loro intelligenza e la loro solidarietà verso gli altri.
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